Racconto lungo o romanzo breve?


L’amico ritrovato è un libro di Fred Uhlman che non supera le cento pagine. Più spesso s’intende come romanzo o romanzo breve, qualche volta come racconto lungo. Arthur Koestler, che scrisse la prefazione della prima edizione italiana, lo considerò una novella. Wikipedia lo definisce un “romanzo in miniatura”; nella sezione tedesca del sito, però, Der wiedergefundene Freund diventa “novelle”. Perché tanti termini per indicare lo stesso libro?

Quanto può essere breve un romanzo?

Non esistono categorie universali né criteri oggettivi ma possiamo ragionare per esempi. Il regolamento del premio Nebula, il riconoscimento annuale del Science Fiction and Fantasy Writers of America alle migliori storie di fantascienza pubblicate negli Stati Uniti, impone uno schema abbastanza diffuso:
Short fiction: under 7,500 words
Novelette: 7,500-17,500 words
Novella: 17,500-40,000 words
Novel: 40,000 words and up
Stephen King riflette sulla lunghezza di un testo letterario nella postfazione di Stagioni diverse, la sua seconda raccolta di racconti; le storie contenute nel libro non sono mai state pubblicate altrove perché oscillano tra le venticinquemila e le trentacinquemila parole: «cifre in grado di far rabbrividire fino nelle ossa il più intrepido scrittore di fiction». La zona grigia, a sentire King, è quella che comprende racconti da ventimila a quarantamila parole: «una sorta di repubblica delle banane letteraria in cui regna l’anarchia, chiamata novella». La parola, però, è l’unità di misura editoriale che utilizzano gli americani. In Italia, secondo Marco Peano: «un racconto è all’incirca compreso tra l’estremo di una riga e le quaranta-cinquanta pagine […] mentre il romanzo può spaziare dalle quaranta-cinquanta pagine che erano il limite del racconto spingendosi fino a un numero imprecisato (1)». Una pagina editoriale è una cartella: 30 righe da 60 battute, 1800 battute per pagina.

Quanto può essere breve un racconto?

Se il romanzo ha un limite massimo abbastanza vago, il racconto breve non è mai “troppo corto”. Le micronarrazioni sono esperimenti tarati sul singolo termine, come Davanti alla legge di Kafka, lo Zahir di Borges, La salsiccia di Dürrenmatt, Le città invisibili di Italo Calvino, i racconti “brevi e straordinari” di Adolfo Bioy Casares e quelli più surreali di Dino Buzzati. In America si è soliti definire un racconto come flash fiction se non conta più di 1000 parole, sudden fiction se non supera le 750 parole, la microfiction si ferma a 100 parole e poi esiste la minisaga di 50 parole, titolo escluso. Ma possiamo continuare per sottrazione, arrivando a forme essenziali come il racconto A very short story di Ernest Hemingway: «For sale: baby shoes, never worn», una six-word story. C’è anche il microracconto di Augusto Monterroso, El dinosaurio, che Calvino definì perfetto: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì» oppure quello di Luis Felipe Lomelí, El Emigrante:
– Dimentica qualcosa?
– Magari.
Sono esercizi di perfezione, basati sulla ricerca ossessiva di una struttura narrativa essenziale; l’obiettivo è raggiungere una specie di minimo comune multiplo letterario. La micronarrazione è una forma che ha suscitato l’interesse di parecchi scrittori: nel 2012, Jennifer Egan scrisse Black Box, una spy story nata per essere pubblicata su Twitter, concepita in porzioni di testo non più lunghe di 140 caratteri, e l’estate scorsa il New Yorker attraversava a summer of very short stories. Volendo recuperare un esempio italiano di micronarrazione, possiamo citare Vanni Santoni e il suo progetto Personaggi precari, una raccolta di ritratti essenziali che danno vita ad altrettante storie, come quella di Antonello:
“Sarà poi fija mia? È tanto bassotta…”

Oltre la lunghezza c’è di più

Dopo aver giocato un po’ con numeri e cartelle, accontentiamoci di sapere che il racconto breve è più corto di una novella e molto più corto di un romanzo e concentriamoci sulle differenze sostanziali.

Profondità

Il racconto è la forma di una storia nella quale, ancora Marco Peano: «i fatti narrati convergono verso il finale: il racconto è verticale, ogni cosa scivola come su un piano inclinato (e più è ripido il piano, tanto immediata sarà la fine), il romanzo è orizzontale, ha la possibilità di estendersi e di contemplarsi, di arrestarsi e di riavvolgersi in continuazione». Questa definizione, anche se in apparenza meno precisa di un vincolo di battute, è già più funzionale: il romanzo si poggia su un nucleo narrativo principale attorno al quale orbitano dei nuclei più piccoli (o filoni secondari). Il racconto è mononucleare; nasce, cioè, da un solo evento significativo, un “fatto” determinante per l’evoluzione del protagonista attorno al quale lo scrittore costruisce la narrazione. Come scrisse Flannery O’Connor: «Il racconto è un’azione drammatica compiuta, e in quelli più riusciti i personaggi si svelano mediante l’azione, e l’azione è a sua volta condotta attraverso i personaggi: il significato che se ne trae deriva dall’esperienza nel suo complesso (2)».

Esattezza

Italo Calvino, che sognava “immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni di un epigramma” dedicò un’intera lezione americana all’esattezza, declinandola in tre requisiti che deve avere una storia per essere efficace:
1) un disegno ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili;
3) un linguaggio il più preciso possibile.
Queste regole valgono in generale, ancora di più quando si tratta di scrivere un racconto. Un buon racconto non è il prodotto di grandi artifici: a volte basta stabilire l’evento giusto e farlo accadere tra pochi personaggi, utilizzando lo stesso registro senza troppe variazioni ritmiche. Ma ogni elemento della storia deve essere indispensabile, così come ogni scelta stilistica deve essere funzionale. Guido Conti sottolinea che: «Il racconto breve insegna a essere precisi, a non perdersi, a concentrarsi sul cuore tematico della narrazione e a lavorare su di esso, in modo originale. […] ad avere cura delle sfumature (3)». Scrivere è sempre difficile, ma è più facile sbagliare un racconto perché ogni scelta diventa fondamentale.

Tensione

Non è detto che la durata di un racconto debba essere inferiore a quella di un romanzo. Basta ricordare La morte di Ivan Ilich di Tostoj o Il caso Benjamin Button di Fitzgerald, racconti che comprendono vite intere; per contro, Joyce ha scritto Ulisse raccontando quell’unica giornata di Leopold Bloom. Per Cortázar, un racconto si distingue in base all’eccezionalità dell’evento descritto, al grado d’intensità della storia e alla tensione narrativa, quel «clima proprio di ogni racconto, che costringe a continuare a leggere, che cattura l’attenzione, che isola il lettore da tutto quanto lo circonda per poi, terminato il racconto, restituirlo alla sua circostanza in un modo nuovo, arricchito, più profondo e più bello (4)». Un romanzo può accogliere diversi picchi d’intensità, in una progressione che predispone il lettore al climax definitivo, ma non può essere scritto “in tensione” dall’inizio alla fine.

Quanto è lungo un racconto breve?

Data la complessità concettuale e strutturale del caso, è evidente che la lunghezza (pagine, battute o cartelle che siano) non è un valore sufficiente per classificare un testo letterario. Alberto Moravia, in Uomo come fine, definiva il racconto come una forma autonoma, disciplinata da leggi proprie; così variegata («si va dal “recit” di tipo francese al racconto lungo con personaggi e situazioni già quasi da romanzo, fino al poema in prosa») da non poter essere identificata se non per esclusione: un racconto, suggeriva Moravia, è “tutto quello che non è un romanzo”.

Siamo tornati al punto di partenza: stabiliti i parametri che fanno di una storia un racconto, cosa distingue un racconto lungo da un romanzo breve? Sembrerebbe un enigma senza soluzione ma Marco Peano aggiunge un inciso interessante: «per esigenze editoriali spesso di preferisce parlare di “romanzo” tout court, perché il mercato sembra ancora prediligerli alle raccolte di racconti». Come scriveva anche Rossella Milone in un articolo del 2014: «Ecco, in Italia i racconti esistono, vengono pubblicati. Solo che come la nebbia di Totò e Peppino, ci sono ma non si vedono; o, meglio, non si vedono bene». Così la differenza diventa più chiara perché non è una questione di misure ma di prime impressioni; la verità è che un romanzo breve si ve(n)de meglio di un racconto lungo. Perciò, se vi capita di leggere un romanzo che vi pare un racconto, probabilmente avete ragione: è solo un travestimento.


***
(1) Tratto da Il racconto breve, testo compreso nella serie Zoom Academy.
(2) Tratto da Nel territorio del Diavolo, Flannery O’Connor. minimumfax, 2010. Traduzione di Ottavio Fatica.
(3) Tratto da L’arte di leggere, Guido Conti. Scuola del racconto.
(4) Tratto da Altri aspetti del racconto, contenuto in Bestiario. Traduzioni di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto.

Commenti

  1. Per me la verticalità del racconto, rispetto all’orizzontalità del romanzo resterà sempre quel momento in cui, nel corso della live chat successiva alla lettura di La lince rossa e altre storie della Lee, cadde inesorabilmente la connessione, facendo crollare anche la verticalità del racconto.
    Sciocchezze a parte, questa storia del romanzo breve che non è un racconto non l'ho mai capita. Concordo sulle conclusioni: mere ragioni commerciali.

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    1. (Verissimo!)

      Della questione ne parlò anche Vanni Santoni in un articolo di qualche tempo fa dal titolo “Perché in Italia abbiamo paura dei racconti?”. In quel pezzo Vanni fa riferimento a “I miei documenti” di Alejandro Zambra, raccolta di racconti (che ho letto anch’io) venduta come “undici brevi romanzi”.

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