Nella stagione che sto vivendo, scopro l'emozione di cose nuove. Se prima consideravo una trama riuscita tra i fattori più importanti su cui fondare un giudizio, ciò che mi colpisce adesso è la parola, in sé e in relazione alle altre. In realtà è un concetto più complesso: mi emoziona la sfida ai limiti del linguaggio. Esiste un gap evidente, una voragine incolmabile, per cui ciò che diciamo (scriviamo, raccontiamo) non è mai quello che abbiamo in mente. È una frustrazione che non riguarda tutti, ma che in alcuni scatena una ricerca ossessiva, destinata a raggiungere risultati che l'interessato percepirà sempre un po' parziali e insoddisfacenti. Come un moderno Sisifo, il narratore trascina il peso del suo messaggio lungo un piano inclinato di parole finite e definite. Un passo avanti, tre passi indietro. Ma questa insoddisfazione stimola una sperimentazione continua che spesso si traduce in racconti e romanzi imperfetti e bellissimi. Molti dei miei scrittori preferiti hanno questa caratteristica, ricondotta da diversi critici alla definizione astratta di stile. Lo stile, però, è soprattutto una questione di forme; io mi riferisco a un'esigenza diversa, qualcosa che assomiglia di più all'esasperazione dei contenuti. William Faulkner combatteva la parola nei suoi passaggi più lirici, conscio del fatto che la stessa fosse soltanto una forma per riempire un vuoto, sostituta indegna di una verità intraducibile. Era una lotta che conduceva per interi periodi; frasi interrotte, costrette una dietro l'altra a dispetto di ogni logica sintattica. Ma se Faulkner mi ha suggerito i confini del problema, è stato Thomas Wolfe a spiegarmi perché arrendersi non è un'ipotesi da considerare.
Milioni di altre cose che tutti noi abbiamo conosciuto, che tutti noi ricordiamo, che sono l'aria, la sostanza, il sangue della nostra vita, in quel momento rinvennero nella mia mente con immagini sfolgoranti, il flusso torrenziale di un doloroso, intollerabile ricordo; e improvvisamente capii con chiarezza, per la prima volta nella mia vita, che non avevo linguaggio, non avevo parole per dar loro voce, né una lingua per raccontare la forma, la dimensione, il tono, le caratteristiche, il significato e l'emozione che quelle immagini continuavano a conservarci. E quando vidi e capii questo, mi resi conto che dovevo trovare un linguaggio per me, una lingua per esprimere quello che sapevo ma non potevo dire. E dal giorno e dal momento di quella scoperta si delineò chiaramente lo scopo della mia esistenza, si definì il senso verso cui avrei diretto ogni energia e il talento della mia vita.È questo che mi commuove in Thomas Wolfe: l'incapacità di non poter essere altro che la somma di se stesso, «come un torrente, un impeto e una forza compressa». Ed è così che appare in Story of a Novel, il testo del discorso che tenne di fronte a un gruppo di studenti del Boulder College, pubblicato dalla casa editrice Scribner's nel 1936. Non Thomas Wolfe, l'autore di uno degli esordi più sorprendenti del secolo (il romanzo Angelo, guarda il passato) ma un uomo qualunque, uno che non poteva non scrivere quello che ha scritto. Chiamato a rispondere sulla genesi del libro, Wolfe ne fa una questione di sostanza, sangue e vita. Racconta di un processo estenuante e accidentato che parte proprio dalla scoperta dell'inadeguatezza della lingua. Sembra quasi di vederlo, nel suo metro e novantotto, rimpicciolire di fronte alla vastità della missione. Tutta quella vita da scrivere. Ma sapeva di non avere alternativa: «la forza creativa che c'è in noi sarà anche capace di distruggerci come una lebbra se la lasciamo marcire, prima che nasca, nell'intimità di noi stessi». Thomas Wolfe predicava la ricerca di un linguaggio personale, un codice che ogni scrittore avrebbe dovuto trovare in sé. Il suo sguardo passava dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande e la distanza da un mondo all'altro era appena una parola. Sulla carta, però, immagini limpide si trasformavano in figure approssimative, e allora colmare gli spazi vuoti diventava un tormento. Scriveva tante ore al giorno ogni giorno, pagine e pagine piene di parole, un'esuberanza che derivava dal «non essere mai sicuro di aver detto abbastanza». O di averlo detto abbastanza bene. Eppure non riesco a immaginare niente di più simile alla vita di questo scrivere sconsiderato, imperfetto e bellissimo.
Scrivere è stato per diversi anni l'aspetto essenziale, il più coinvolgente della mia vita e mi è costato lo sforzo, la fatica, l'incertezza e la sofferenza più forte che io abbia mai conosciuto. Non ho realizzato quello che volevo; ho fallito in un modo che solo io conosco ma ce l'ho anche fatta (...) Non penso che questo sia il modo per scrivere un libro, anzi spero proprio che nessuno di voi debba mai scrivere un libro in questo modo. Se però questo non è il modo di scrivere un libro è almeno un modo in cui un uomo ne ha scritto uno.
Più volte Thomas Wolfe ripete di non essere un modello da seguire, che la storia del suo romanzo sembra più una collezione di errori che il racconto di un successo. Ma se questo è vero, io credo anche che la profondità della sua esperienza, l'intensità con cui l'ha vissuta, sia una delle lezioni di scrittura tra le più emozionanti che abbiamo.
***Storia di un romanzo. Fazi editore, 1997. Traduzione di Igina Tattoni.
Bello, grazie.
RispondiEliminaScrivere, per quanto mi riguarda, E' (fai finta che sia un accento) sofferenza, errori, incertezze, frustrazione, fatica - anche se ci sono quei periodi di fuoco in cui non vorresti far altro che startene davanti al pc temendo che un pensiero decisivo ai fini della tua storia perda l'opportunità di esser tradotto in parola. Ed è sempre confortante sapere che anche per quelli davvero bravi è tutt'altro che una passeggiata.
Ma d'altra parte penso anche che la sconsacrazione del processo renda più fluido il processo stesso. Se accettiamo che scrivere sia un lavoro come un altro, frustrante e faticoso, spesso di "bassa manovalanza", e mettiamo da parte certe ingenue idee romantiche sulla figura dello scrittore (lo scrittore sempre ispirato, lo scrittore che non scrive mai pagine davvero pessime, eccetera), probabilmente scriveremo meglio. Ogni giorno ci piazzeremo davanti la tastiera sapendo cosa ci aspetterà, e non ne rimarremo delusi. E fileremo più svelti verso la meta. Il lavoro ossessivo sul testo, il ricomporre la stessa frase quelle quarantatré volte, il battere un tasto dopo l'altro fino a notte fonda spesso non avendo una chiara idea di dove approderemo. Una grossa fetta dello scrivere è anche questo.
Prenderne atto, in un certo senso, ci rende liberi.
Sono d'accordo con te e se sfogli altri articoli troverai pieno riscontro. Però il mio discorso, che si ricollega a quello di Wolfe, è un po' diverso. Il suo approccio viscerale, condivisibile o meno, è relativo: a me preme sottolineare l'importanza che nella sua scrittura ha la sperimentazione condotta - anche - sul linguaggio, la ricerca di un modello espressivo completo e complesso. Questa, secondo me, è la vera lezione. Scrivere è un lavoro, vero, ma c'è modo e modo di lavorare.
EliminaPer ora quoto tutto sulla fiducia.
RispondiEliminaDevo ammettere che anche per me la sfida con il linguaggio è un fattore importante nel momento in cui mi dedico a un libro. Ci sono letture che faccio esclusivamente per la trama, che senz'altro mi intrattengono, ma che non rimangono con me a lungo; mentre nel momento in cui c'è la ricerca lessicale e la ricchezza espressiva, è più probabile che un autore rimanga impresso. Personalmente ritengo che, tra i contemporanei, uno degli autori che più è riuscito a piegare la penna al suo volere è Ian McEwan.
RispondiEliminaNon ho mai letto Wolfe, ma gli stralci che hai riportato del suo discorso me lo rendono immediatamente amico.
Potrebbe piacerti, hai una buona resistenza di base ;) E concordo su McEwan, piace molto anche a me.
EliminaSalve, è bellissimo questo blog! Io credo sinceramente che l'aspetto più interessante sia quando dice "non avevo linguaggio, non avevo parole per dar loro voce, né una lingua per raccontare".
EliminaÈ come dire che la realtà eccede di significato, o meglio, non si spiega da sola, come se la realtà rimandasse ad altro da sé, ad una causa o ragione più grande; in questo senso egli può dire solo "quello che sapevo ma non potevo esprimere", è come se il suo cuore avesse intuito, in fondo, che le parole possono in qualche modo descrivere, ritrarre la realtà -quanto vogliamo- ma la realtà non si spiega da sola e quindi le nostre parole sono insufficienti a spiegarne la ragione profonda. Maria Di Biase, cosa ne pensi?
Ciao, grazie (lascia il tuo nome la prossima volta così ti riconosco!). Penso che sono d'accordo e che il mestiere di scrivere è proprio questo: raccontare, utilizzando un veicolo limitato come la parola, tutta la complessità del mondo, dalla più grande esperienza alla più piccola increspatura.
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