Chi ben comincia (a scrivere) è a metà dell’opera

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È stato Charles Bukowski a dire che «scrivere del blocco dello scrittore è meglio che non scrivere affatto», perciò eccoci qua. La verità è che gli avvenimenti dell’anno hanno influito in maniera determinante sulla mia creatività, che negli ultimi tempi si traduceva in una (discreta?) capacità di mettere in fila le parole. È stata una conseguenza fin troppo banale, e proprio per questo abbastanza fastidiosa, figlia di un’apatia generalizzata che nei mesi scorsi ha smorzato ogni mio stimolo a comunicare. Semplicemente, pensavo di non avere niente da dire. Quel che pensavo, invece, non sapevo bene come dirlo perché non era troppo chiaro neanche a me. 

In termini tecnici, questa difficoltà rimanda alla definizione del temutissimo blocco dello scrittore; la condizione per cui un autore, in senso più ampio, si trova ad affrontare un rallentamento creativo. E già in questa fase primordiale, di riconciliazione di fatti e precetti, cominciano a sorgere le prime divergenze di opinioni. Per alcuni, infatti, il blocco è un alibi, uno schema mentale che mette in sicurezza la coscienza degli scrittori più pigri: 37.000.000 risultati su Google – Writer’s Block Doesn’t Exist – sostengono la tesi secondo la quale il vero colpevole del tempo sprecato, su carta o schermo, è il demone della procrastinazione. D’altra parte, c’è chi afferma che svilire i sintomi del blocco dello scrittore non è d’aiuto. Anzi, può essere addirittura dannoso, come quando dici a qualcuno che soffre di una malattia che non esiste. In pratica, gli stai dicendo che è un bugiardo e che la sua afflizione è una pantomima.

A metà tra i due partiti, si pone il parere di Jhumpa Lahiri che, ai lettori del Times, descrisse il blocco dello scrittore come una parte naturale del processo creativo: «Ci sono momenti in cui si è pieni di idee, ma ci sono altre volte in cui scrivere è più difficile». Il rallentamento, secondo l’autrice, è parte dell’essenza fluida della creatività. Il periodo in apparenza meno produttivo, sarebbe quello in cui le idee stazionano nella mente, quando una storia cresce ma non è necessariamente scritta sulla pagina. Questa visione funzionale del blocco dello scrittore trova corrispondenza con quanto detto da Martin Amis in un’intervista per il The Paris Review:
La concezione comune di come vengono scritti i romanzi mi sembra essere una descrizione esatta del blocco dello scrittore. Nella visione comune, lo scrittore è in questa fase così disperata che è seduto con un elenco di personaggi, un elenco di temi e una struttura per la sua trama, e apparentemente sta cercando di combinare i tre elementi. In effetti, non è mai così. Quello che succede è ciò che Nabokov ha descritto come un palpito. Un palpito o un barlume, un atto di riconoscimento da parte dello scrittore. A questo punto lo scrittore pensa: “Ecco qualcosa su cui posso scrivere un romanzo”. In assenza di quel riconoscimento non so cosa si farebbe. 
In attesa di capire se il blocco dello scrittore entrerà di diritto tra le patologie riconosciute dalle associazioni di categoria, ci vuole poco a intuire che la difficoltà è direttamente collegata alla mancanza d’ispirazione. E l’ispirazione non è gratuita. A tal proposito, ci torna utile un essay di Jack London del 1905 in cui, senza mezzi termini, lo scrittore si rivolge al collega più indolente e dice: «Non oziare e invita l’ispirazione; inseguila con un bastone. Se poi non arriva, magari riesci a ottenere qualcosa di simile». Quel qualcosa di simile può essere un tentativo maldestro oppure il principio di una risoluzione, comunque un modo per uscire dal pantano e provare a far ripartire il motore. Potrebbe accadere come succedeva a Gabriel García Márquez e passare molti mesi solo sul primo paragrafo; una volta intrapresa la direzione, però, il resto veniva facile.

Il problema, allora, è cominciare. Perciò eccomi qua.


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