Genesi di un romanzo dell’orrore: Shirley Jackson e L’incubo di Hill House

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Per cominciare a raccontare L’incubo di Hill House, Shirley Jackson sceglie un incipit folgorante:
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà. 
L’incipit diventa ancora più interessante se consideriamo il fatto che la scrittrice ha dichiarato di avere qualche difficoltà a distinguere la vita vera dalla finzione. L’ammissione compare nel saggio Come scrivo, ma l’aspetto più esilarante della storia è che questa è una caratteristica che possiamo riconoscere in molti protagonisti dei suoi libri.

Shirley Jackson è considerata una delle più grandi scrittrici dell’orrore. Stephen King lo pensa, Richard Matheson lo pensava. L’ho sempre pensato anch’io, ma non ero mai andata oltre il piacere della lettura. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: ho cominciato a chiedermi perché una storia funziona e un’altra no, a chiedermelo in funzione di racconti da valutare, correggere e pubblicare, perciò mi è venuta voglia di provare a capire tecnicamente cosa rende la scrittura di Shirley Jackson così speciale.

Succede questo: prendo il romanzo, proprio quello con l’attacco memorabile, una matita e qualche post-it; mi concentro soprattutto sulla prima parte. Poi leggo Paranoia, l’ultima raccolta d’interventi della Jackson pubblicata dalla casa editrice Adelphi, e rimango stupita perché c’è un brano, che s’intitola L’aglio nella narrativa, in cui Shirley spiega esattamente come ha concepito L’incubo, soffermandosi sulle stesse sequenze che ho analizzato io. Quello che leggerete, quindi, è un articolo un po’ bizzarro, un pezzo scritto a quattro mani, in differita, che mette insieme tre prospettive: i miei appunti (in nero), le sue intenzioni (in grigio) e il romanzo così com’è (tra virgolette). Cominciamo?

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Nel libro che ho appena finito di scrivere, L’incubo di Hill House, la graduale costruzione di un insieme di simboli era l’unico modo per gestire un passaggio particolarmente difficile.
Dopo una breve ma efficace descrizione della casa, casa che «si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio», Shirley Jackson introduce il personaggio di John Montague, professore di antropologia e appassionato di paranormale. Montague conosce la reputazione di Hill House e decide che l’unico modo che ha per smentire certe ipotesi è verificarle di persona. Così mette insieme una lista di soggetti che hanno avuto esperienze fuori dall’ordinario e li invita a passare qualche settimana nella casa. Di tutti i candidati, rispondono solo in quattro: una di questi è Eleonor Vance.
Il mio problema era portare Eleanor, una donna di trentadue anni, nella sua casa di New York a una casa stregata a trecento chilometri di distanza.
«L’unica persona al mondo che odiava cordialmente, adesso che la madre era morta, era la sorella. Detestava anche il cognato e la nipote di cinque anni, e non aveva amici». Eleonor Vance è la preda perfetta: è sola, è rancorosa, incattivita dagli anni passati ad accudire la madre invalida. Il padre morì quando lei aveva dodici anni; un mese dopo la scomparsa, sulla casa si abbatté una tempesta di pietre che durò tre giorni (Eleonor non lo sa, ma ha vissuto un episodio di poltergeist. Questo è il motivo per il quale è finita nell’elenco di Montague).
Nel corso del viaggio che dà inizio al libro, Eleonor doveva risultare un personaggio patetico, il più importante del romanzo; doveva apparire infinitamente sola e infelice. Nel contempo doveva esserci una transizione dall’ambiente concreto della città all’atmosfera in qualche modo meno credibile della casa stregata, e questa transazione andava preparata con cura, nella mente di Eleonor e in quella del lettore, per introdurre gli orrori che sarebbero arrivati in seguito e le reazioni della protagonista.
Il narratore ci presenta l’altra donna del gruppo, Theodora, e non lascia dubbi: «era diversissima da Eleonor». Poi Luke Sanderson, il nipote della proprietaria della casa, «un bugiardo, e anche un ladro». Ma non ci soffermeremo sulle comparse perché il nostro oggetto di studio è Eleonor; esattamente: il percorso che compirà per raggiungere Hill House.

Alla partenza si manifesta la prima difficoltà: la sorella è contraria alla partecipazione di Eleonor all’esperimento perché teme che l’invito del professore nasconda cattive intenzioni. «Per me non la deve prendere, la macchina, punto e basta», chiude il cognato. Manuale di narratologia dice: desiderio vince ostacolo e muove il personaggio, infatti Eleonor ruba l’auto della sorella e si mette in viaggio.
Ho pensato che il modo migliore per condurre il lettore e la protagonista dentro un’atmosfera irreale fosse concentrarsi su un tipo di irrealtà che entrambi potessero accettare facilmente, una specie di atmosfera fiabesca e sognante che in quelle circostanze risultasse piuttosto naturale per Eleonor.
La prima immagine che Shirley Jackson introduce per percorrere la falsa riga della fiaba è uno scontro accidentale con un tipico personaggio del genere. Eleonor, in preda all’agitazione, urta una «vecchiettina», una «donnina» che tiene dei sacchetti per la spesa. L’urto allenta la presa della signora e il contenuto dei sacchetti si rovescia sull’asfalto. «Maledizione a te, maledizione!» (lo ripete tre volte). Nota a margine: quante storie conoscete in cui appaiono anziane signore che lanciano maledizioni? Eleonor vuole rimediare e chiede di pagare la spesa, la vecchia rifiuta ma sembra calmarsi. Prima di andare via, all’ennesima scusa di Eleonor, risponde: «Non importa. [...] Pregherò per te, carina».

Shirley Jackson lascia Eleonor ai suoi pensieri, allarga l’inquadratura con una sequenza descrittiva e c’informa che quello che stiamo leggendo accade «il primo giorno davvero splendido dell’estate». I lettori più affezionati di Shirley Jackson sanno che le belle giornate non finiscono bene, non a caso La lotteria comincia in una «mattina limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate». Il contrasto rende la narrazione meno scontata: le notti “buie e tempestose” non fanno davvero paura.
Per Eleonor è il momento di lasciarsi andare a struggenti ricordi d’infanzia: «Che n’era stato di tutti quei giorni d’estate perduti?». Eppure sorride perché sente che, per la prima volta, sta facendo qualcosa d’importante per se stessa. 

Giunta all’ultimo semaforo della città, Eleonor rilegge la lettera di Montague. Il professore le raccomanda di fare attenzione perché la strada è in pessime condizioni e le intima di non fermarsi a Hillsdale perché gli abitanti sono scortesi e «apertamente ostili con chiunque chieda informazioni su Hill House». È il primo campanello d’allarme, ma Eleonor è troppo occupata a lasciarsi la città alle spalle per ascoltarlo: «Non mi prende più nessuno».

La ragazza è completamente assorbita dal viaggio: «La destinazione era vaga, mai neppure immaginata, forse inesistente». Ha intenzione di godersi ogni curva: è attratta dall’idea di potersi fermare dove, quando e quanto vuole, magari per sempre. Attraversa la via principale di una cittadina di confine e vede una casa enorme, con una rampa di scale all’ingresso e due leoni di pietra. Eleonor immagina di vivere lì e, mentre lo dice, è già trascorsa una vita intera: «ogni mattina spazzavo il portico e spolverano i leoni, e ogni sera li carezzavo sulla testa per dar loro la buonanotte, e una volta a settimana lavavo loro la faccia, criniera e zampe con acqua tiepida e bicarbonato e li pulivo tra i denti con un bastoncino di ovatta». Emblematico è l’elenco dei particolari di un ricordo che non esiste, sintomo di una fervida immaginazione, quasi una patologica capacità d’astrazione. Poi dice: «Alla mia morte...», ma Shirley tronca la battuta e ci riporta bruscamente sulla strada.

Ormai la città è lontana. Eleonor attraversa una serie di «chioschi chiusi e sudici»: il paesaggio cambia, la realtà non è più nella giornata splendida, ma in panorami cupi e inospitali. Nella zona s’è tenuta da poco una corsa di motociclisti e si può ancora leggere qualche parola dalle insegne sopravvissute: SFIDA e SANGUE. L’ammonizione è così evidente che anche Eleonor la nota, ma ride di se stessa e del tempo che perde a rincorrere cattivi presagi.

All’orizzonte appare un viale costeggiato da oleandri, una progressione ordinata di fiori bianchi e rosa. Eleonor segue il percorso e arriva a un ipotetico ingresso, che in realtà è costituito soltanto da un paio di pilastri di pietra perché la strada si perde nei campi. Nessuna casa, nessun edificio. Cosa c’era prima?, si chiede Eleonor, cosa c’era che adesso non c’è più? E continua: «Dovrebbero esserci una casa o un giardino o un frutteto; sono stati banditi per sempre, o un giorno ci saranno di nuovo?». La tensione cresce parola dopo parola. A proposito di parole: perché Shirley Jackson utilizza il verbo “bandire”? Bandire, in questo caso, vuol dire esiliare, allontanare. L’esilio è una punizione. Perché una casa dovrebbe essere punita e allontanata? Che cosa può aver fatto di male? Poi le viene in mente una cosa: «gli oleandri sono velenosi [...] è possibile che siano qui a difesa di qualcosa?»
Prima ancora di aver concluso il sogno dei leoni, Eleonor passa accanto a una siepe di oleandri, vede un cancello e immagina di varcarlo per entrare in un palazzo che il suo arrivo ha magicamente liberato da un incantesimo, e poi di correre lungo un sentiero ingemmato fino a un cortile dove trova fontane, leoni di pietra e una vecchietta; quest'ultima è in realtà la regina, sua madre, la quale aspettava il ritorno della principessa perché spezzasse l’incantesimo.
I leoni tornano nella fantasia di Eleonor, poi interviene un principe, ma intanto la ragazza ha già avviato il motore perché le è venuta fame. Si ferma in un locale per pranzare. Nel tavolo accanto a lei c’è una famiglia: la bambina fa i capricci e rifiuta il latte. «Vuole la sua tazza di stelle», la madre si rivolge a Eleonor spiegando che a casa hanno una tazza con le stelle sul fondo. La mamma prova a convincere la figlia che la sera avrà la sua tazza, ma che al momento deve accontentarsi. «Non farlo, disse Eleonor alla bambina, insisti per avere la tua tazza di stelle». L’immedesimazione è lampante: Eleonor si riflette nella bambina e ripone in quel rifiuto tutta la forza che non ha mai avuto. La bambina intercetta lo sguardo di Eleonor e scuote la testa. «Intrepida bambina», pensa Eleonor.
Ora, il fulcro dell’intero viaggio era il desiderio di Eleonor di trovare una casa, un posto tutto suo, e naturalmente una vera tazza di stelle che rompesse l’incantesimo della monotonia e della solitudine in cui aveva sempre vissuto. [...] È sempre più chiaro che Eleonor sta sprofondando nelle sue fantasie, si sta trasferendo in un mondo immaginario dove si sente amata e sicura.
Nei pressi di Ashton, Eleonor vede una «minuscola casetta» con un giardino. Non ci stupisce vederla immaginare di vivere lì, immersa nelle rose, con un gatto bianco sul gradino che fa da ingresso a una «porticina azzurra». Eleonor decide che alleverà gatti bianchi e cucirà tende bianche. Le persone andranno a trovarla e lei «preparerà filtri d’amore per fanciulle sconsolate». Mentre pensa se aggiungere al quadretto un pettirosso, la casa è già lontana. «Svolti a sinistra nella 5, in direzione ovest»: Eleonor ricorda le istruzioni del professore, e la voce narrante assume un tono ambiguo perché sottolinea che l’auto si ritrova sulla strada «con grande prontezza, quasi lui (il professore) la guidasse da qualche punto lontano, quasi fosse lui a manovrare il volante». È come se la volontà di Eleonor non contasse rispetto allo scorrere degli eventi, come se le sue non fossero scelte libere: «Dica quello che vuole [...] mi fermerò lo stesso a Hillsdale [...]. Non è proprio come disobbedire comunque»: Eleonor sente il bisogno di giustificare la fermata non concessa: «Ad ogni modo, pensò oscuramente, è la mia ultima occasione».

«Prima di rendersene conto Hillsdale le fu addosso, un’accozzaglia intricata, disordinata di case sudice e strade sbilenche». La transazione è completa: la città, tutta insieme, l’attacca (“le fu addosso” dà proprio l’idea dell’aggressione fisica). Ora fate attenzione agli aggettivi: c’è un solo posto dove fermarsi, ed è una «squallida tavola calda». Eleonor parcheggia l’auto sul «marciapiede sgretolato» e chiude in fretta lo sportello perché la via «anche in pieno sole riusciva a essere buia e sgradevole». All’ombra, contro il muro, «un cane dormiva sonni agitati», dall’altra parte della strada ci sono una donna e due ragazzi immersi «in un elaborato silenzio». Eleonor entra nella tavola calda, stringendo la borsetta e le chiavi dell’auto. «Una ragazza senza mento, dall’aria stanca» è dietro il bancone «sbiadito», un uomo è seduto qualche metro più in là. Il coperchio di vetro sul vassoio di paste è «bisunto».

Eleonor chiede un caffè e si dice che la prossima volta darà ascolto al professor Montague. La cameriera scambia con l’uomo «una complessa serie di battute», e quando porge la tazza a Eleonor lancia «un’occhiata e un sorrisetto, e lui fece spallucce, al che la ragazza scoppiò a ridere». È in atto una conversazione non verbale, e il dubbio che l’argomento sia lei basta a Eleonor per pensare che il caffè sia avvelenato. Per spezzare la tensione, ordina delle paste e prova ad attaccare discorso con la donna. Che graziosa cittadina, dice, dev’essere piacevole vivere qui. Viene molta gente? «Perché qualcuno dovrebbe volerci venire?», risponde lei. Eleonor dice che magari qualcuno potrebbe volere un po’ di tranquillità. La ragazza ride: «Qui no di certo [...]». L’uomo si alza e parla per la prima volta: «Da qui la gente se ne va» e la donna conferma «Ha ragione lui. Quelli fortunati se ne vanno». Eleonor paga e si dirige verso la porta. La cameriera le rivolge le ultime parole: «Arrivederci [...]. Buona fortuna. Spero che troverà la sua casa.»

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L’analisi si ferma qui, a tutela di chi avesse voglia di continuare a leggere il romanzo senza troppe didascalie. Tuttavia, abbiamo raccolto abbastanza elementi utili a decifrare alcuni aspetti della scrittura di Shirley Jackson. Per sviluppare la prima parte della storia, l’autrice ha usato cinque simboli principali: la vecchia, i due leoni, gli oleandri, il gatto bianco e la tazza di stelle. I simboli, accumulandosi, si collegano gli uni agli altri e vanno a comporre l’essenza di Eleonor. L’obiettivo è coinvolgere il lettore nei processi mentali della protagonista, così che impari a conoscerla, si affezioni a lei e alle sue fantasie, al punto da essere disposto a sospendere ogni sorta d’incredulità quando affronteranno insieme la casa stregata. Fosse soltanto per quello che hanno condiviso, vero o immaginato che sia.
Al termine del libro, Eleonor guarda gli altri personaggi e pensa: «Mi ricordo di te; una volta abbiamo cenato insieme nella mia casa con i leoni di pietra in cortile» [...]. Ma niente può farmi del male; da qualche parte, qualcuno sta pregando per me».


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Una menzione d’onore va alle sorelle Pareschi, Monica e Silvia, che hanno tradotto rispettivamente L’incubo di Hill House (2004) e Paranoia (2018). Io mi limito a diffondere il verbo, cosa che ho fatto anche in questo articolo: Shirley Jackson: il terrore, la paranoia e altre esaltazioni casalinghe.

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