Il desiderio di scrivere di tutti (ovvero su Fedeltà di Marco Missiroli)



In Come non scrivere, Claudio Giunta dice che un buon articolo nasce da idee chiare. Per organizzare al meglio il discorso, è necessario definire tutti gli argomenti. Sarebbe opportuno spiegare al lettore, magari già nell’attacco, quello che leggerà. Quando si tratta di opinioni, ogni sezione dovrebbe essere concepita per convergere verso il finale, che coinciderà con la tesi che sottende tutto il pezzo. Ebbene, avverto il lettore che questo articolo non ha una tesi: è una riflessione in movimento, un modo di ragionare ad alta voce e sperare, così, di chiarire alcuni dubbi. Per ridurre al minimo il rischio di naufragio, la nostra rotta potrebbe essere: “Io che m’interrogo su un certo modo di scrivere in Italia e mi do delle risposte”.

Un paio di premesse.
La prima: non leggo molta letteratura italiana contemporanea, ecco perché non ho la presunzione di arrivare a descrivere il problema in tutte le sue variabili. Per questo motivo tenderò a generalizzare: è un peccato, non si fa, ma ho appena ammesso che questo è un esempio di come non scrivere un articolo, e offro la mia onestà in cambio di alcune attenuanti.
La seconda: non leggo molta letteratura italiana contemporanea, ma non ne vado fiera. Non mi sento parte di quella corrente di pensiero che snobba i romanzi italiani sull’onda di un esotismo fazioso. Alcuni scrittori americani scrivono male tanto quanto alcuni scrittori italiani, se non peggio, però sembra che ci sia una diversa tolleranza per gli uni e per gli altri.
Altra cosa: mi disturba l’approccio nostalgico, quello per il quale la letteratura italiana è morta, si stava meglio quando si stava peggio e non ci sono più le mezze stagioni. Credo che ogni epoca possa essere fonte d’ispirazione per uno scrittore accorto e capace. Quello dei tempi andati è un alibi di cui dovremmo liberarci, sotto tutti i punti di vista.

Detto questo, nessuno è perfetto, e anch’io mi lascio influenzare dai pregiudizi. È un atteggiamento che cerco di non assecondare, anche perché crea una frattura tra quello che faccio e quello che dico: da più di due anni sono al timone di una rivista letteraria, e un progetto che, tra le altre cose, mira a valorizzare la scrittura di autori italiani, non può prescindere dal contesto in cui opera. Così qualche volta, per contrastare le cattive abitudini, opto per una terapia d’urto e compro il libro italiano più discusso del momento. Per me diventa oggetto di studio: voglio capire l’effetto che fa, ancora meglio “perché lo fa”. Il ragionamento di oggi nasce dalla lettura di Fedeltà di Marco Missiroli perché è un esempio perfetto di quello che (credo) voglio dire.

Il romanzo è una riflessione sul concetto di fedeltà (resistere a un tradimento non è già tradire?) e si sviluppa attraverso il racconto di due intervalli di tempo, a distanza di una decina d’anni (2009-2018), della vita di diversi personaggi: c’è un nucleo famigliare attorno al quale orbitano alcune figure secondarie e i percorsi di tutti s’incrociano per eventi più o meno casuali. Sullo sfondo, una cartografia accurata di Milano (un po’ quella di Buzzati, un po’ quella dell’Expo).
Precede la storia una citazione di Pastorale americana. Philip Roth è lo scrittore jolly dei nostri tempi: mainstream, ma non ancora in modo fastidioso. Citarlo è già segnare il primo punto sul tabellone. Faccio riferimento all’esergo perché è importante: l’ammiccamento letterario è una delle costanti del certo modo di scrivere a cui mi riferisco, ma ci torneremo.
La narrazione parte con un dialogo, uno scambio tra il professor Carlo Pentecoste e una studentessa:
– Tua moglie mi ha seguita.
– Mia moglie.
– Fino a qui – Sofia lo fissò: – Professore?
Lui guardava l’entrata dell’aula.
– Credo che sia in cortile.
Questo è un buon incipit, da manuale: il lettore entra in una scena consequenziale e lo fa in una situazione che lo intriga (è come se stesse origliando una conversazione segreta). Da queste battute s’intuisce che è già successo qualcosa, qualcosa di convenzionalmente immorale, un rapporto tra professore e studentessa, e siamo già al punto in cui la moglie potrebbe sapere, ovvero: un attimo prima che esploda la bomba. È la stessa tecnica che usa Philip Roth, per restare tra amici, nell’incipit del romanzo Inganno. Il contenuto del dialogo è un po’ diverso, ma l’effetto è simile.
– Io scrivo, tu comincia.
– Come si chiama questa cosa?
– Non so. Come la vogliamo chiamare?
– Questionario sul sogno di fuggire insieme.
– Questionario sul sogno di fuggire insieme di due amanti.
– Questionario sul sogno di fuggire insieme di due amanti di mezza età.
– Tu non sei di mezza età.
– Come no?
– A me sembri giovane.
– Sì? Bè, questo dovrà saltar fuori dal questionario, sicuro. Entrambi gli aspiranti sono tenuti a rispondere a tutti i quesiti.
– Comincia.
Com’è prevedibile, Missiroli disinnesca la bomba quasi subito. In realtà ci rendiamo conto che non c’è nessuna emergenza da arginare, almeno nel breve periodo. Sappiamo che è successo qualcosa nel bagno della scuola, “un incontro ravvicinato di natura ambigua” intercettato da uno studente di passaggio, che Sofia e il professor Pentecoste hanno spiegato l’equivoco al preside, che Carlo l’ha raccontato a Margherita, sua moglie, perché non ha niente da nascondere, e che Margherita non ha creduto del tutto alla versione del marito. Con questo stratagemma, l’autore si assicura un’attenzione che reggerà per diverse pagine.

Il racconto è affidato a un narratore esterno che entra ed esce dalla mente dei personaggi e ci aiuta a delineare i contorni del quadro. Lasciamo Carlo e seguiamo Margherita alla seduta di fisioterapia: ha un tendine infiammato che sta curando da qualche tempo. La osserviamo abbandonare il dubbio del tradimento per concentrarsi sulle mani di Andrea, il fisioterapista. Margherita vorrebbe che fosse un po’ più ardito, le viene la tentazione di guidarlo inventando una nuova mappa del dolore («Un po’ più su, un po’ più a destra»). Se lo merita, no? Forse Carlo l’ha tradita.

Il romanzo prosegue come una corsa a staffetta: da Margherita ad Andrea, da Andrea alla madre di Margherita, poi a Sofia, di nuovo a Carlo, e così via. La narrazione s’interrompe con Sofia che lascia il master e torna a Rimini. Dopo un salto di nove anni, scopriamo che Carlo e Margherita hanno comprato la casa dei loro sogni in via della Concordia e hanno avuto un bambino. Sofia è rimasta a Rimini e lavora nel negozio di ferramenta del padre. Andrea si è messo con un uomo, ma non accetta del tutto la propria omosessualità. Con altri passaggi di testimone si arriva al finale, abbastanza scontato, tutto sommato in linea con la direzione iniziale del romanzo.

Chiarita la trama e la struttura narrativa, provo a mettere sul banco le mie perplessità.
Partiamo dal “come”: la scrittura di Missiroli è corretta, se questo vuol dire qualcosa. Come l’incipit: da manuale. Nonostante qualche passaggio un po’ troppo sentimentale, il ritmo è godibile. È uno stile ragionato, che nel suo punto di forza rivela la maggior pecca: non stupisce. È accademico. Detta facile: si legge l’intenzione, si vede lo scrittore alla scrivania.
Questa cosa non dovrebbe accadere, io non dovrei farci caso. In Fedeltà non succede sempre, e questo già lo porta a un livello appena più alto dei soliti libri da classifica (Tipo: «No. Non aveva mai creduto che potesse venire fuori qualcosa di buono da persone afflitte dallo stesso problema che stabiliscono programmaticamente di aiutarsi. Credeva semmai che la salvezza, come la sventura, ci sorprende, e arriva da dove meno ce lo aspetteremmo.» L’isola dell’abbandono di Chiara Gamberale. Feltrinelli, 2019).

Il problema, però, non è tanto com’è scritto. Sfatiamo un mito: non è vero che tutti gli scrittori italiani scrivono allo stesso modo, più che altro è vero che non esistono tanti scrittori italiani con uno stile riconoscibile, che è un discorso diverso. Come non è vero che scrivono tutti della stessa cosa, non in senso stretto. Il limite, secondo me, è il campo d’indagine. È il fatto che scrivono tutti delle stesse persone: uomini e donne tra i trenta e i quarant’anni, con una vita mediamente serena, un lavoro abbastanza stabile, un rapporto più o meno solido. Persone adagiate in un percorso ordinario a cui non sentono di appartenere del tutto, ma non abbastanza frustrate da avere la forza di cambiare strada. I rapporti sono alimentati da qualche fuggevole scappatoia, assecondata o solo immaginata, scossi da malintesi e piccoli rancori, appianati da non detti e compromessi. Sono soggetti che si fermano al potenziale, che passano la vita a ribellarsi ai genitori, a ciò che rappresentano, e poi diventano esattamente come loro. Esattamente come tutti.

Carlo Pentecoste è il frutto di una serie di accomodamenti: è diventato professore di tecniche della narrazione per una raccomandazione di suo padre. Voleva diventare uno scrittore ma non ci è riuscito  (non ci aveva creduto veramente?) e, per ironia della sorte, insegna ad altri come fare.
Ciò che è accaduto tra Carlo e Sofia è sintomo di questo atteggiamento. Sofia, delusa da un giudizio negativo del professore su un suo racconto, si rifugia in bagno. Carlo aveva  cominciato a fare qualche pensiero un po’ più audace su di lei qualche giorno prima, da un semplice contatto della mano di lui sulla schiena di lei. Lui si era scusato e la ragazza aveva risposto «Perché mai?». Quel “perché mai” aggancia il professore al pensiero di Sofia con una morbosità che lui stesso fatica a capire. È già sbagliato? («“Non significa niente”. O meglio: “non significa troppo”»). Così, animato da sensazioni contrastanti, il giorno del malinteso la segue. Sofia gli dice che non sarà mai una scrittrice, il professore le dice che sa come ci si sente. Si baciano. Lei cerca di opporre resistenza, ma non è troppo convinta. Poi il fatto. Anzi, il non fatto: lei sviene, lui la sorregge, l’aiuta a raggiungere il lavandino e la cosa finisce lì.

L’episodio fa scattare un moto di rivolta in Carlo. Quando ripensa a quel momento, si rende conto che non è turbato dalla paura di essere scoperto, anche perché non è successo nulla, ma dalla rabbia per l’ennesima cosa che non ha portato a termine; non è riuscito neanche a finire una cosa tanto semplice: farsi una studentessa nel bagno della scuola. È stato costretto a giustificarsi per un fatto che, in ogni caso, lui non sarebbe mai stato in grado di concludere («Se lei non fosse svenuta, lui si sarebbe inventato qualcosa che permettesse di dirsi: non sono infedele. Come lo sapeva? Lo sapeva»). Sofia diventa il pretesto di un’ossessione, ma è chiaro che la ragazza è solo una sfida del protagonista con se stesso. Proprio perché non riesce ad avere Sofia, Carlo cerca altre donne. Proprio perché Carlo non riesce ad avere Sofia, Margherita va con Andrea: desiderio contro desiderio, uno appagato, l’altro soffocato. Chi è l’infedele tra i due?

L’allontanamento dei due coniugi si nasconde all’ombra di un grande diversivo: l’acquisto della casa in Via della Concordia, un appartamento da 465.000,00 euro per 120 metri quadrati. I due si dicono che non possono permettersela, ma poi la comprano con un mutuo a 900 euro al mese. Riporto i conti del bilancio di famiglia perché l’estrazione sociale è una componente decisiva del disegno: Carlo e Margherita non sono così poveri da soffrirne, né così ricchi da goderne. Allo stesso modello rispondono i vestiti che indossano, il cibo che mangiano, i libri che leggono.
I libri, avevo detto che ci sarei tornata. Questo certo modo di scrivere ha capito quali sono le leve emozionali dei lettori, perciò le usa tutte: Fedeltà è pieno di riferimenti letterari (Obiezione: Carlo Pentecoste è un docente di tecniche della narrazione. I libri c’entrano. Obiezione respinta: proprio perché è un docente di tecniche di narrazione non c’è bisogno di mettersi a solleticare tanto: less is more). Margherita entra in scena con un cappottino rosso e un libro di Irène Némirovsky (che non è Sophie Kinsella e non è Susan Sontag), Sofia invia a Carlo La paga del sabato di Fenoglio, Camere separate di Tondelli e Sylvia di Leonard Michaels. Poi però, quando a un colloquio chiedono di Shakespeare, il professore risponde che non lo conosce tanto bene (perché il Bardo non è di tendenza, facciamocene una ragione).

Non c’è niente di sbagliato in Fedeltà, allo stesso tempo non c’è niente di convincente. È un romanzo che si allinea a molti altri, uno che si accontenta. Di che cosa? La risposta a questa domanda è nelle parole con le quali si presenta, e questo mi fa pensare che il difetto non sia accidentale.
Siamo sicuri che resistere a una tentazione significhi essere fedeli? E se quella rinuncia rappresentasse il tradimento della nostra indole più profonda? La fedeltà è un’àncora che ci permette di non essere travolti nella tempesta, ma è anche lo specchio in cui ci cerchiamo ogni giorno sperando di riconoscerci. Marco Missiroli lo racconta andando al cuore dei suoi personaggi: lui, lei, l’altra, e l’altro. Noi stessi. Preparatevi a leggere la vostra storia.
I personaggi di Fedeltà siete voi, siamo noi. Ma l’immedesimazione è solo il primo livello dell’attività complessa e stimolante che è la lettura. Questo concetto lo spiega meglio Vladimir Nabokov in Buoni lettori e bravi scrittori, l’introduzione alle sue Lezioni di letteratura. Ci sono almeno due tipi d’immaginazione che possiamo usare per leggere un libro: la più modesta cerca supporto nelle emozioni semplici ed è di natura personale; una storia ci tocca perché ci ricorda qualcosa che è accaduto, a cui ripensiamo con nostalgia, oppure (la cosa peggiore, dice Nabokov) ci identifichiamo con un personaggio del libro. Secondo Nabokov dovremmo sforzarci di mantenere un certo distacco, e apprezzare il distacco per gustare («gustare avidamente, gustare con passione, gustare con lacrime e brividi») la struttura di un capolavoro. Un capolavoro è un libro che stimola un’immaginazione impersonale, è un incontro in una zona franca, lontana dalla dimensione dello scrittore e del lettore. Un posto nuovo e inesplorato. Ecco, se l’articolo può avere una conclusione è questa: alcuni romanzi italiani sono inoffensivi perché non rischiano, non si azzardano ad andare oltre una certa soglia di sicurezza. È come se ogni parvenza d’introspezione fosse una ricerca già conclusa.

I libri tarati su un certo modo di scrivere rientrano in una categoria dai confini abbastanza labili. Ma Gianluigi Simonetti, in La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, riesce a darne una definizione precisa: sono storie che non vogliono scontentare nessuno, che non cercano la profondità delle opere di cultura, però rifuggono dalla dimensione di semplice intrattenimento. Parliamo di una scrittura «smart e consensuale, prodiga di informazioni e rassicurazioni identitarie; aggiornata e aggiornabile, come un profilo social network» (non a caso Sofia ha un account su Instagram dove condivide le fotografie dei libri che spedisce al professor Pentecoste).

L’intrattenimento non è un problema in sé, anzi: deleteria è la sopravvalutazione di alcuni prodotti editoriali, che vengono spacciati per quello che non sono. Il rischio, poi, è l’effetto anestetico; la conseguenza dovuta a un periodo prolungato di letture senza lacrime e senza brividi: che alla fine non senti più niente.


***
Dopo aver scritto l’articolo, ho recuperato alcune recensioni. Non mi ha stupita leggere in Gianluigi Simonetti le mie stesse perplessità. Però il titolo che ha scelto lui lascia meno dubbi: Fedeltà, di Missiroli, è costruito per compiacervi, siete sicuri di volerlo?

Commenti

  1. Non vale. Leggevo l'articolo e mi dicevo "quasi le stesse considerazioni di Simonetti, glielo devo dire". Alla fine del pezzo, ho notato che l'avevi già scoperto da sola😉
    Ho iniziato a leggere narrativa contemporanea italiana da poco; ho capito che non potevo continuare a non leggerla solo perché si stava meglio quando si stava peggio e perchè io ho ancora tanto da apprendere dai Grandi per poter perder tempo coi contemporanei (lacune enormi. Devo ancora leggere moltissimi classici, non solo italiani). Il pregiudizio è una brutta bestia e spesso mi lascio condizionare.
    Ciò detto, la tua analisi è molto dettagliata e se non leggerò Fedeltà ne sarai parzialmente responsabile. O, forse, prevarrà la curiosità di farmi un'idea personale del romanzo, nel vano tentativo di capire le ragioni per cui alcuni libri vengano candidati al più prestigioso premio letterario italiano, prima ancora dell'uscita in libreria.
    Intanto, per avvantaggiarmi, sto leggendo M. di Scurati (neanche con lui Simonetti è stato particolarmente tenero).

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