Raymond Carver e Gordon Lish: una storia quasi vera



Quello tra uno scrittore e il proprio editor è un rapporto complesso. È giocato su un campo, il testo, che rappresenta tantissime cose per entrambi e proprio a causa di questo può risolversi in modi differenti. Thomas Wolfe dedicò Il fiume e il tempo a Maxwell E. Perkins (editor, tra gli altri, di Hemingway, Fitzgerald e Caldwell) per la «leale devozione e la paziente cura con cui l’intrepido e costante amico» l’aveva assistito durante la revisione del manoscritto. Perkins diventò una figura così importante nella vita di Tom che lo scrittore arrivò ad allontanarsene per dimostrare, soprattutto a se stesso, di essere in grado di scrivere anche senza di lui. La storia si concluse in una specie di lieto fine alla morte prematura di Wolfe.

Forbici, il libro del francese Stéphane Michaka, riprende le dinamiche di un’altra coppia editoriale, forse ancora più celebre: quella tra Raymond Carver e l’editor Gordon Lish. Anche se l’autore precisa che il romanzo è un’opera di fantasia, che i discorsi sono inventati e che per avere un’idea precisa dei fatti occorre documentarsi da fonti meno narrative, non si può fare a meno di leggerlo pensando a ciò che è veramente accaduto.

Raymond Carver nacque in Oregon nel 1938, poi si trasferì a Washington. Nel 1955 incontrò Maryann Burk che, ancora minorenne, restò incinta. I due si sposarono quando Ray aveva ancora diciannove anni. Lui voleva diventare uno scrittore ma era costretto a lavorare per mantenere la famiglia; così, nei ritagli di tempi, cominciò a seguire un corso di scrittura per corrispondenza. Nel 1958 riuscì a frequentare il Chico State College e partecipò alle lezioni di John Gardner. Pubblicò un paio di racconti su qualche rivista e nel 1967 incontrò Gordon Lish, allora editor di Esquire. Era il 1979 quando conobbe la poetessa Tess Gallagher, la donna che diventò la sua seconda moglie; tre anni prima Ray aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Vuoi star zitta, per favore?, ottenendo una nomination per il National Book Award. La svolta, però, avvenne il 20 aprile 1981, quando uscì Di cosa parliamo quando parliamo d’amore; quella raccolta fece di Raymond Carver uno tra gli scrittori statunitensi più famosi al mondo.

Anche questo sembra un lieto fine, e invece no, perché più tardi si scoprì che i racconti non erano stati scritti da Carver. O meglio: non furono pubblicati come li scrisse Carver perché Gordon Lish tagliò circa la metà delle parole dalle versioni originali, intervenendo in modo decisivo in dieci finali su tredici. Si parlò di una correzione troppo invasiva, qualcuno disse che Lish aveva mortificato il “vero” Carver plasmando la sua scrittura in base a criteri esclusivamente commerciali. Si sollevò il dilemma: i racconti che erano stati pubblicati li aveva scritti Carver o Lish? Più in generale: qual è il confine tra editing e riscrittura? La questione ebbe ancora più risonanza perché Carver aveva da poco superato un periodo difficile (era stato ricoverato un paio di volte in una clinica per risolvere la sua dipendenza dall’alcol). L’idea di raggiungere un successo che aveva sempre inseguito lo allettava, così in un primo momento approvò tutti gli interventi proposti, ma in una lettera che scrisse a Lish nel 1981 s’intuisce il principio di un ripensamento:
Ti dico la verità, qui è in gioco il mio equilibrio mentale. Ora non vorrei fare il melodrammatico, ma davvero ho appena fatto ritorno dai morti per rimettermi a scrivere dei racconti. [...] E adesso ho una gran paura, una paura da morire, lo sento, che se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei più a scrivere un altro racconto, Dio non voglia...
Nonostante le suppliche, Lish pubblicò i racconti corretti e Carver (suo malgrado?) fu riconosciuto come il precursore del minimalismo, lo stile più imitato tra gli scrittori di racconti. Tess aiutò Ray a disintossicarsi e, come lei affermò più tardi, a ritrovare la “sua voce”. Nel 2009, a vent’anni dalla morte del marito, Tess riuscì a portare a termine un’impresa che pare avesse in mente lo stesso Carver: pubblicare i racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore nella versione originale. Il risultato di quel progetto s’intitola Principianti.

Forbici ripropone lo spaccato di vita che va dall’incontro di Raymond con Gordon (che nel romanzo si chiama Douglas), passando dal divorzio con Maryann (Marianne), l’incontro con Tess (Joanne), fino alla morte di lui. Si conclude nel momento in cui Joanne comunica a Douglas che ha intenzione di pubblicare i racconti originali di Ray. L’idea alla base del romanzo è interessante perché, anche se il caso è stato ampiamente discusso, non ha trovato e non troverà mai una soluzione, ed è curioso immaginarlo in una dimensione più letteraria. Diversi scrittori si sono trovati a prendere posizioni contrastanti: se Don DeLillo, che ha collaborato diverse volte con Lish, pensa che l’editor sia diventato famoso per le ragioni sbagliate, quando Philip Roth parla dei racconti di Carver non ha dubbi: «[...] in occasione della sua prima pubblicazione il testo non fu solo rivisto, ma addirittura fatto a pezzi».

Il romanzo è interpretato dai quattro protagonisti che intervengono, a turno, per raccontare una parte della storia. Nell’eccezionalità del libro, però, ossia l’ispirazione a un fatto realmente accaduto che ha acceso un forte dibattito nel mondo editoriale, stuzzicante per chi è anche solo un poco interessato alla scrittura, ai racconti, alla letteratura americana, sta la forza e la sua debolezza: perché l’autore si schiera in modo palese, strutturando alcune scene per avvalorare la tesi dello scrittore sopraffatto dal cattivo editor; questo fa di un esperimento potenzialmente esaltante, una recita “a difesa di”. E portando alla memoria il fatto che il romanzo sia liberamente ispirato alla vita di Carver il risultato non cambia perché i difetti restano: la caratterizzazione dei personaggi è così esasperata che in alcuni passaggi diventa caricaturale. Quello che ne esce peggio è Lish-Douglas, soprannominato Forbici, tratteggiato come un professionista glaciale, sprezzante e prepotente, preda di un’insanabile orticaria letteraria.
«Dico ai miei studenti – dirigo un laboratorio di scrittura due volte alla settimana, lei dovrebbe venire – dico: “La cosa più umiliante che vi sia accaduta, quella che vi ha fatto strisciare per terra. Prendete un foglio di carta e me la raccontate”. Hanno tutti lo stesso sorriso stereotipato, mentre si ricordano il primo scapaccione, o la prima volta a letto… SCRIVETE, PERDIO! [...] Verdetto? Sempre lo stesso? CHI VI HA DETTO DI METTERVI A NUDO? [...] CHI VI HA DETTO DI VOMITARE L’ANIMA SULLE MIE SCARPE? Con la vostra anima mi pulisco i piedi come su uno zerbino.
Non bastano i momenti in cui Douglas si costringe ad ammettere che la sua sicurezza non è così indissolubile. Sono già più toccanti i riferimenti al lavoro, che celano una dedizione assoluta alle storie degli altri: «Passerei la vita in questo ufficio, senza pensare che ho una famiglia. Ho forse una famiglia? A cosa somiglia? Alle riviste allineate sugli scaffali? Alle pile di bozze che devo correggere?». Ma appena la narrazione si avvicina a una certa verità – che si tratti proprio di Carver e Lish o che si faccia riferimento a uno scrittore qualsiasi e a un editor qualunque –, Michaka carica i dialoghi, dando alle relazioni un sapore vagamente fittizio («Perché piangi? Perché piangi quando ti faccio un contratto? Sìì felice, Ray, sii felice di firmare con me»). Per Ray la penna di Douglas è “l’arma del delitto” e imperativi come «Non voglio che tu mi tagli» riducono ai minimi termini un rapporto che nella realtà non poteva essere così scontato.

«Quel tizio non è Dio. È soltanto un editor» ripete Raymond, eppure all’inizio si affida; a poco valgono le esortazioni di Marianne che altro non fa se non contribuire a delineare la brutalità di Douglas («Ha detto davvero che hai troppo cuore?»). Ray sa che per pubblicare i suoi racconti deve assecondare Douglas, anche quando non è troppo d’accordo con le sue teorie («Interrompere sempre a metà le liti. Mai sentito dire. E le danno ascolto i suoi studenti. Be’, già, così c’è da scrivere meno. Se si fermano tutti a metà… Pronto, Signor Douglas? Cazzo!»).

La narrazione è intervallata da quattro racconti scritti da Michaka alla maniera di Carver; storie nelle quali Ray riversa se stesso e il rapporto complicato con Marianne. I passaggi in cui Douglas edita i racconti sono i più notevoli; si riesce a entrare nel mestiere senza troppi sentimentalismi, anche con una certa ironia. Come nel caso del lavoro su Chi ha bisogno d’aria?
«Le sirene delle ambulanze sono quelle che mi porto dietro dalle mie notti di guardia». Le sirene… Mi porto dietro le sirene. Dalle mie notti. Sono quello che mi… Mi porto dietro le sirene dalle mie notti. Perché usare più parole? Raymond si porta dietro le sirene dalle sue notte. È tutto. Si capisce. «Da mezzanotte alle otto, si susseguono, talvolta si mescolano, sulla carreggiata a due corsie che circonda…” Ehilà. Si mescolano attorno all’ospedale, punto. [...] «Sul momento, non ci penso poi tanto». Perché “Sul momento?” Tu ci sei, nel momento. «Il pronto soccorso, per me, è un insieme di rumori lontani…» ahi, lontani, aggettivo, squama – «percepiti dall’interno di una guardiola di vetro”. Tutto questo, oplà, ce lo dimentichiamo. 
Douglas dichiara che la narrativa è “il reale con un passo di lato” e che le sue forbici non servono per incidere la carne; anzi, è proprio a favore di questa che opera: «affinché la somiglianza sia assoluta». Ma Ray non si riconosce più nelle storie che ha scritto perché quella di Douglas non è la sua visione. Per i più affezionati lettori è impossibile non riconoscere, tra i dettagli che Michaka semina durante il percorso, qualche traccia dei racconti di Carver. Il Ray letterario e quello reale s’incontrano spesso, intrecciando atteggiamenti e situazioni, fino a toccarsi in un aggettivo: brillante, troppo brillante, come il lavoro di Douglas e anche quello di Lish. «Non è più mio, è troppo brillante perché lo sia», dice Ray nel romanzo (nella lettera del 1981 a Lish, Carver scriveva: «Gordon, i cambiamenti che hai fatto sono brillanti e, nella maggioranza dei casi, sono miglioramenti [...] Però è ancora troppo vicino, quel racconto»).
Tre colpi di forbici, qualche frase spostata. E Marianne e io siamo un po’ più separati, un po’ più distanti l’uno dall’altra. È così che ci vedi, Douglas? Ti sbagli. Deve rimanere una speranza, un barlume. Anche se è soltanto il neon sul ciglio dell’autostrada.
«Cosa ho fatto? Cosa ho fatto? Non ho fatto nulla di diverso con il lavoro degli altri, e alcuni sono stati estremamente grati per questo» dice Gordon Lish in un’intervista per il The guardian, e il suo atteggiamento, arrogante almeno in apparenza, non fa che alimentare il suo personaggio, un’armatura dalla quale non prova neanche a liberarsi. «I lettori sono stati sedotti e, mi dispiace, ma è stato il mio intervento che li ha sedotti» e di questo non si può non dargliene atto. Non così empatico come Perkins, Lish è comunque un editor dal talento indiscutibile. Di Carver ha creato un modello che ha condizionato il modo di scrivere di diverse generazioni. E non c’è dubbio che i due fossero d’accordo sulle correzioni, solo che dopo, anche a seguito dei cambiamenti che avvennero nella sua vita, Ray ci ripensò.

Per pubblicare Beginners, Tess coordinò il lavoro di un gruppo di esperti: Lish aveva venduto tutti i suoi appunti, compresi i dattiloscritti di Carver e le correzioni, alla Lilly Library di Bloomington. Quello che scoprirono è che, nella maggior parte dei racconti, la versione originale e la versione editata seguono direzioni differenti. Riassume bene il concetto D. T. Max in un ottimo articolo del 1998 per il New York times: «In the original manuscripts, Carver’s characters talk about their feelings. They talk about regrets. When they do bad things, they cry. When Lish got hold of Carver, they stopped crying. They stopped feeling». Non si tratta di giudicare quale delle due versioni sia migliore perché è evidente che il lavoro fatto sia stato efficace: i racconti editati da Gordon Lish sono perfetti. Il lettore non ha appigli, non ha conforto, perciò è costretto a cercare dentro di sé le risposte che desidera: Lish è intervenuto in maniera chirurgica, asciugando la scrittura e portando la narrazione all’essenziale. I racconti diventano frecce che raggiungono il centro del bersaglio con una precisione millimetrica; a partire dai dialoghi: non c’è una battuta che non sia assolutamente necessaria. Il problema è che quel risultato è stato ottenuto forzando la natura di alcuni racconti. Lish giocava a intendere piuttosto che a dire perché, come ricorda il Douglas del romanzo, «una parola in più non si perdona a nessuno». Ma i racconti di Raymond Carver fioriscono proprio sul finale; i protagonisti piangono, si disperano, si distruggono a vicenda, ma si rivelano (si spiegano e si liberano) nelle loro fragilità, e questa, probabilmente, era un’intenzione da preservare.

Come si legge in una lettera scritta durante la stesura dei racconti di Cattedrale, per i quali Carver continuò a collaborare con Lish limitando però i suoi interventi: «Una cosa è sicura: i racconti di questa raccolta saranno più pieni di quelli dei libri precedenti. E questa, Cristo santo, è una cosa buona.»


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Forbici, Stéphane Michaka. Edizioni Clichy, 2013. Traduzione di Maurizio Ferrara.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Raymond Carver. Einaudi, 2014.
Principianti, Raymond Carver. Einaudi, 2015.
Traduzioni di Riccardo Duranti.

Beginners nella versione originale su The New Yorker

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