Atlante delle meraviglie. I racconti di Danilo Soscia

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In Tutto il ferro della torre Eiffel di Michele Mari, un tormentato Walter Benjamin si aggira per le strade di Parigi alla ricerca dell’aura. L’aura, un concetto che il vero Benjamin approfondì nei suoi saggi, era per lui l’anima dell’oggetto artistico: «l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina». Lo scrittore, immerso nei suoi studi sull’influenza dei media, leggeva nella riproduzione meccanica dell’arte l’appagamento di un bisogno che poco aveva a che fare col solo fatto di voler godere della bellezza. Il Benjamin romanzato da Mari cerca di sanare la nostalgia dell’aura collezionando gli oggetti dei libri; l’idea è di prendere possesso di tutte le cose, perché le cose, liberate dal contesto, inventano un messaggio nuovo e tornano a brillare. Così, insieme allo storico Marc Bloch, Benjamin attraversa i passages della capitale francese per trovare nuovi pezzi da aggiungere alla collezione e durante il cammino incrocia diversi personaggi, reali o letterari.

Walter Benjamin compare anche nell’Atlante delle meraviglie, la wunderkammer di Danilo Soscia; si trova di nuovo a Parigi ma questa volta beve cognac con una cartomante calva di Pigalle, poi abbraccia l’incantatore di Hamelin mentre ballano sulle note di un brano di Joséphine Baker. L’Atlante delle meraviglie è una raccolta di “sessanta piccoli racconti mondo”, storie di uomini, animali, miti e prodigi. Il libro può essere letto seguendo l’ordine suggerito, oppure si può scegliere di cominciare da un luogo o da un tema. I mondi compresi nell’Atlante sono diversi, dall’antica Grecia a Gerusalmemme, da Formia a Buenos Aires, e gli uomini sono più o meno esistiti, come Disma, il Buon Ladrone di Gesù, Isacco, Giona, Elettra, passando da Che Guevara, Rimbaud, il marchese de Sade, Wittgenstein e Hitler, per finire su gente più anonima: una coppia di anziani, un vedovo, una donna, un esule.
Disse, Sei bello più di un re. La sua voce, come la mia, era mutata. Poi, euforico aggiunse, Voglio farti vedere una meraviglia. E così, senza che io avessi il tempo di oppormi, dalla stessa borsa di iuta estrasse un involucro di panno bianco. Lo svolse e mi mostrò la lingua incorrotta di un essere umano. Mi guardò estasiato e mi propose con la vivacità di un gatto, Non la vorresti per te? Risposi di no.
«I personaggi sono evocati dalla morte» dice Soscia presentando l’Atlante, seguendo il suggerimento shakespeariano per il quale «Nulla è se non quello che non è». Qualche volta le apparizioni sono introdotte da un narratore esterno, spesso sono le confessioni più intime di un io narrante. Non c’è pena nel tono utilizzato per raccontare la morte perché «la morte arriva per ciascuno, ma non è un evento di cui curarsi»; il vero problema è definire cosa ne è stato del tempo vissuto. «Che cos’era la mia vita, e com’ero fatto io?» si domanda un abitante delle favelas nel racconto Il Cristo Redentore

I protagonisti dell’Atlante delle meraviglie assomigliano un po’ ai morti di Spoon River, quando ogni ricostruzione si carica di nostalgia. Ma se per gli uomini di Masters il luogo è un elemento fondamentale per esprimere un sentimento condiviso, i figuranti di Soscia appartengono ai mondi più vari, ed è questo che li arricchisce. Come il Benjamin di Mari, Soscia libera i personaggi slegandoli dal contesto originale: ogni pezzo è unico ma, aggiunto alla collezione, contribuisce a formare un universo altro, completo proprio perché così eterogeneo.

Tralasciando quelli più surreali, come «Un pomeriggio di agosto Satana appare a un giocatore di pachinko», quasi tutti gli incipit dei racconti annunciano una tragedia («Alla fine l’estate non risparmiò nessuno» da Quarantena oppure «La tromba d’aria ha risparmiato solo il nostro odio» di Apecarro), una situazione drammatica («Il più giovane tra noi venne smembrato da un lupo» da Il macello di Circe e «Hanno amputato la gamba di nostro padre» da Banconote False), al limite dell’esperienza umana («La notte prima dell’arrivo del santo, ci portarono da mangiare il cadavere di uomo» in Maiale). È come se fossero tutti dei superstiti, vittime di una situazione già compromessa.

Scegliere un solo racconto diventa difficile anche perché sono tutti molto, molto belli, e su sessanta non è così scontato; mondi distanti eppure congiunti, tenuti insieme dallo stile di Soscia che resta sempre fedele a se stesso: la sua è una scrittura squisitamente evocativa, sia quando racconta dei giorni della detenzione di Antonio Gramsci che quando richiama la storia di Cassandra, la sacerdotessa del tempio di Apollo. Quello che forse interpreta meglio la collezione è Cabot Cove, il racconto che vede come protagonista Jessica Fletcher, la famosa “signora in giallo”. «Prendi la forma di un cadavere, per esempio»: comincia così, con le particolarità che possono essere riconosciute nei corpi che hanno affrontato vite differenti. Ogni morto è un libro, e anche «l’esito materiale più alto di un’idea» perché è l’essere umano spinto fino al possibile.
Confesso che non mi hanno mai sedotto le analogie tra cose e pensiero, e l’oceano è grigio, come grigia è, in fondo, la materia che lo compone. I morti sono simili a una parola che può voler dire solo una cosa poiché ha maturato fino all’ultima soglia la possibilità di significare.
E poi un’altra cosa, ancora più importante: «l’aspetto causale degli eventi intorno al cadavere», il nesso degli elementi, in apparenza scomposti, che si nasconde intorno a uno che muore. Come dice Bertolt Brecht quando diventa un personaggio di Soscia nel racconto Pietà: «la verità è che un uomo saggio non coltiva mai la speranza di sopravvivere a se stesso. A tutto resistevo, niente poteva scalfirmi, solo la bellezza mi disintegrava».


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Atlante delle meraviglie, Danilo Soscia. Minimum fax, 2017.
Tutto il ferro della torre Eiffel, Michele Mari. Einaudi, 2002.
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin. Einaudi, 2000. Traduzione di Enrico Filippini.

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