L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares

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Quando Borges scrisse la prefazione al romanzo L’invenzione di Morel non fu parco di complimenti: «Ho discusso con il suo autore i particolari della trama; l’ho riletta; non mi pare un’imprecisione né un’iperbole qualificarla perfetta». Non a caso Borges, nel suo intervento, fece menzione della trama; il romanzo di Bioy Casares segue la struttura della novella poliziesca, la stessa che lo scrittore argentino utilizzò nel celebre racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, perciò L’invenzione di Morel era un romanzo perfetto nella misura in cui aderiva al modello del racconto d’indagine. Borges pensava che le ficciones di natura poliziesca rappresentassero il genere letterario per eccellenza perché, come “fatti misteriosi che poi un fatto ragionevole giustifica e illustra”, erano la trasposizione più esatta della vita, intesa come un certo caos racchiuso nell’ordine della scrittura.

«Antiche come la paura, le storie fantastiche precedono la scrittura» affermava Bioy Casares, così L’invenzione di Morel è un racconto poliziesco di stampo fantascientifico. La storia è quella di un uomo condannato all’ergastolo che, per sottrarsi alla pena, si rifugia su un’isola deserta della Patagonia, incurante delle leggende che descrivono il luogo come un focolaio di una misteriosa malattia. Il romanzo, scritto in forma di diario, comincia il giorno in cui il fuggitivo si accorge di non essere solo; aveva passato cento notti sull’isola, aveva scoperto alcuni macchinari nelle cantine di un museo, ma non aveva ancora incontrato altri esseri umani. Tra gli intrusi c’è una donna che ogni sera guarda il tramonto dalla scogliera: l’uomo la segue e, dalla paura di essere scoperto, passa al desiderio di svelarsi. Ma quando prova a parlarle è come se lei non lo vedesse e allora lui, che prima si pensava morto perché accusato da innocente, poi di nuovo vivo perché innamorato, decide di spiare il gruppo per risolvere il mistero dell’isola.

Il fuggitivo, come un buon detective, si pone diverse domande, prende nota dei fatti che osserva, ripete gli stessi concetti come a volerli verificare. È un’indagine in piena regola, farcita di termini che appartengono al gergo del genere: “Ho accumulato prove”, “La scena”, come una scena del crimine, “li ho sorvegliati per diciassette giorni”. Il diario è scritto nella prospettiva di una pubblicazione e le note di un curatore a fondo pagina ci fanno supporre che l’intenzione del proprietario sia andata a buon fine. Come nei migliori racconti di Poe, l’autore gioca sull’ambivalenza del protagonista che si comporta da perseguitato e da persecutore, con l’atteggiamento paranoico che ricorda la governante del racconto Il giro di vite di Henry James. A metà della storia, il fuggitivo mette in ordine i suoi appunti e avanza delle ipotesi: “Che io abbia la famosa peste”, “che l’aria corrotta delle paludi mi abbia reso invisibile”, che gli ospiti siano esseri “d’altra natura”. Oppure è tutta una follia, oppure sono tutti morti. Qual è la verità?

Leggendo il romanzo di Bioy Casares non si può fare a meno di cogliere l’eredità dei più famosi racconti d’avventura, richiamati dal topos dell’isola, e delle atmosfere delle storie del terrore dell’Ottocento; il senso di oppressione per una condanna ingiusta e imminente è l’eco del Josef K. di Kafka e il dilemma sulla natura benigna o maligna della tecnologia è un ragionamento preso in prestito dai migliori scritti di Wells. Allo stesso tempo, L’invenzione di Morel è qualcosa di nuovo, una storia in cui il fantastico visionario, come l’avrebbe descritto Italo Calvino, rappresenta solo il primo livello della struttura. Francesca Lazzaretto, curatrice dell’edizione italiana del romanzo, scrive che «l’inclusione di un elemento fantastico è solo il pretesto per meditare sul problema della fugacità dell’esistenza; e in effetti appare evidente che Borges dà a Bioy un lettura funzionale alla costruzione delle proprie strategie letterarie». Adolfo Bioy Casares ha scritto un racconto nel quale il vertice della piramide è un’indagine prima psicologica e poi etica: Morel (nome che omaggia lo scienziato Moreau di Wells) ha inventato una macchina che, sfruttando la potenza delle maree, registra e proietta la vita all’infinito. I viaggiatori sono intrappolati in un’unica settimana, sullo sfondo di un’isola che diventa “purgatorio o paradiso di quei morti”.
Provavo un senso di rifiuto, quasi disgusto, per quella gente e la sua ripetuta, instancabile attività. Sono apparsi parecchie volte, lassù, sulla cima. Trovarmi su un’isola abitata da fantasmi artificiali era il più insopportabile degli incubi; essere innamorato di una di quelle immagini era peggio che amare un fantasma.
È stato Michele Mari a dire che «L’invenzione di Morel ribadisce un’antica illusione degli umani: che a divenire immortali sia sufficiente conseguire la Forma: la Forma formata e compiuta, definitivamente sottratta dall’arte alla corruttibilità della vita» e questo rende il romanzo di Bioy Casares estremamente attuale perché mai come adesso noi siamo “presenze disgregate” che cercano di riconoscersi in una forma in cui c’è tutta l’illusione della vita eterna.

Un appello accorato chiude il romanzo, la speranza del fuggitivo riposta in chi inventerà un’altra macchina, più perfetta di quella di Morel perché sarà in grado di riunire le coscienze e catturare quella parte di spirito che la forma non trattiene. «Queste righe rimarranno immutabili, nonostante la fragilità delle mie condizioni»: il diario diventa testamento, e il protagonista a malapena si rende conto che proprio la scrittura è l’espressione più alta dell’immortalità che sta cercando.



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L’invezione di Morel, Adolfo Bioy Casares. Edizioni Sur, 2017. Traduzione di Francesca Lazzaretto.

L’amicizia tra Borges e Bioy durò cinquantanni. I due scrissero diversi libri insieme, tra i quali Antologia della letteratura fantastica coinvolgendo anche la moglie di Bioy Casares, la scrittrice Silvina Ocampo.

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