Dino Buzzati: due racconti, l’architettura e la magia del quotidiano


Una volta Le Corbusier disse che un buon architetto ha una profonda conoscenza dell’uomo, una grande immaginazione, uno spiccato senso della bellezza e un sentimento di libertà sconfinato. L’architettura è l’organizzazione armoniosa e razionale dello spazio, è una disciplina che mette insieme l’estro e la tecnica; progettare un edificio è tracciare il contorno di una materia indefinita, un tentativo di dare una forma all’esperienza umana. È proprio quello che fa la letteratura.

Ci sono almeno due racconti che Buzzati ha scritto ponendo un edificio al centro della storia e sono contenuti nella raccolta La boutique del mistero. La boutique del mistero è una selezione di racconti tra i più significativi di Dino Buzzati, “il meglio di quanto ho scritto”, così li presentava, perché riprendono tutti i temi che hanno caratterizzato la sua opera: la tendenza all’altrove, alla scoperta di un sé che non si rivela mai fino in fondo, la solitudine senza soluzione, gli stati d’animo in antitesi con le circostanze. E poi, e soprattutto, il pensiero esasperante della morte come evento inevitabile. I racconti d’ispirazione architettonica sono Sette piani e Ragazza che precipita.

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Sette piani (1937)
Sette piani è la storia di Giuseppe Corte. Una mattina di marzo, Corte arriva in una città dove c’è una casa di cura. Ha un po’ di febbre, niente di preoccupante, ma non vuole trascurarsi. Comincia a camminare e vede il sanatorio in lontananza (i protagonisti di Buzzati restano sempre un po’ interdetti, meravigliati e commossi, di fronte alle perfette geometrie degli edifici. Indimenticabile, per esempio, è il momento in cui Giovanni Drogo, il tenente del romanzo Il deserto dei tartari, vede per la prima volta la fortezza Bastiani (1)). Il sanatorio è un «bianco edificio a sette piani solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi». Dopo una visita di controllo, Corte viene a sapere che i pazienti sono distribuiti tra i vari piani in base alla gravità della malattia: al settimo piano ci sono quelli in via di guarigione, al sesto quelli che versano in condizioni più gravi, fino all’ultimo piano, dove ci sono i malati terminali. La struttura dell’edificio permette ai residenti dei piani superiori di vedere quelli di sotto, anche se da vedere c’è ben poco perché le finestre del primo piano sono quasi tutte sprangate. Corte è assegnato al settimo piano ma dopo dieci giorni viene trasferito al sesto: solo per qualche giorno, gli viene detto, e solo perché al settimo non ci sono altre stanze libere. Corte accetta a malincuore, anche perché quando arriva al piano inferiore si accorge subito che i malati sono più malati, i dottori sono più seriosi, i discorsi sono più solenni. Cosa c’entra lui con quel piano? Stessa domanda che si porrà quando si troverà al quinto, per una serie di equivoci e qualche coincidenza, e poi al quarto, e al terzo, fino al primo.

Ragazza che precipita (1966)
La ragazza che precipita si chiama Marta. Marta si affaccia dalla sommità di un grattacielo che a quell’ora della sera le sembra d’argento. La ragazza vede «i palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto» e il blu del mare e il bianco delle case e le mille luci che vengono dal basso. Laggiù ci sono uomini potenti e donne bellissime, insegne fosforescenti e macchine scintillanti, amori, promesse e desideri. Marta si sporge di più e si lascia andare. Le terrazze sono piene di gente che brinda e mentre Marta precipita qualcuno le chiede se ha voglia di fermarsi a festeggiare. Marta declina ogni invito perché ha fretta d’arrivare, non si può proprio trattenere. Di arrivare dove, le chiedono. Marta non risponde, saluta e continua a precipitare, «come si precipita allegramente quando si hanno appena diciannove anni». Durante la discesa, le scene all’interno degli appartamenti cambiano: non solo gente allegra e bicchieri colmi ma lunghe file di scrivanie, e uomini e donne col capo chino su cumuli di pratiche. Marta continua a scendere sempre più veloce perché ha paura di non arrivare in tempo. Soltanto dopo si accorge delle altre, ragazze giovani quanto e più di lei, che stanno precipitando lungo i lati dell’edificio. Marta guarda in su, al «pinnacolo del grattacielo in tutta la sua potenza crudele», e le viene un po’ di paura al pensiero di aver fatto uno sbaglio al quale non potrà più rimediare.

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Quando fu pubblicata, nel 1968, La boutique del mistero aveva come sottotitolo “31 storie di magia quotidiana”, a rimarcare l’idea del titolo e il presentimento che una certa forza misteriosa si nasconda nei posti più sicuri; nell’abitudine, nella rassicurante ripetizione di gesti e situazioni.

Dino Buzzati è stato uno scrittore, un pittore, un poeta e un drammaturgo. È stato però anche un cronista, un redattore e un inviato di guerra. In un’intervista del 1962, Bernardo Valli notò nel sovrapporsi dei ruoli una certa contraddizione: come romanziere, Buzzati raccontava un mondo surreale, come giornalista era obbligato ad attenersi alla realtà. Così Valli chiese a Buzzati come riuscisse a conciliare queste due anime. Buzzati rispose: «In certi casi il lavoro giornalistico mi distrae dal vero lavoro di scrittore, ma io cerco di scrivere le mie storie fantastiche come se fossero dei fatti veri e propri di cronaca».

Setti piani e Ragazza che precipita raccontano storie differenti. Quella di Giuseppe è una discesa inarrestabile verso il primo piano, che Buzzati mette in scena per esprimere l’ineluttabilità del destino e l’incapacità dell’uomo di accettare la morte; per tutto il tempo del racconto, da piano a piano, Corte dirà agli infermieri e ai pazienti di essere al piano sbagliato e solo di passaggio. Quello di Marta, invece, è il racconto di una vita che si consuma nell’inseguimento della grande occasione. Ma la situazione surreale, l’idea dell’abisso e la metafora della caduta rendono i due racconti abbastanza simili, accomunati ancor di più dallo stile di Buzzati; lo scrittore sembra raccontare di Marta e di Giuseppe con un certo distacco, come se si trattasse, appunto, di due fatti di cronaca. Di lui, il critico Giacomo Debenedetti scrisse: «Buzzati è uno scrittore per cui il mondo esterno esiste, ma a patto che sia un indizio o uno stemma di qualcos’altro da ciò che è».

Nella Boutique c’è un altro racconto che s’intitola Una goccia ed è proprio la storia di una goccia d’acqua. Questa volta, a differenza della discesa di Giuseppe e della caduta di Marta, la goccia sale, dal primo piano verso l’alto, percorrendo ogni notte i gradini della scala di un condominio. La notizia di quella bizzarra presenza si diffonde in fretta, così ogni sera i condomini avvicinano l’orecchio alla porta per assicurarsi che la goccia passi oltre le loro case. Non sanno spiegarsi il motivo ma quando accade è una specie di sollievo. Quelli dei piani superiori, invece, restano svegli tutta la notte aspettando di sentirla arrivare. Nessuno riesce a dormire perché è meglio sapere che vivere nel dubbio. Cos’è questa goccia? Un’allegoria? Buzzati risponde alle nostre supposizioni “entrando” nel racconto: «Niente affatto, signori: è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale [...] non è uno scherzo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahimè proprio di una goccia d’acqua che di notte viene su per le scale. Tic tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura.».


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«Non era imponente, la fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e bastioni, assolutamente nulla c’era che consolasse quella nudità, che ricordasse le dolci cose della vita. Eppure [...] Drogo la guardava ipnotizzato e un inesplicabile orgasmo gli entrava nel cuore.» da Il deserto dei tartari. Mondadori, 2016.

Fatto, che forse c’entra e forse no ma secondo me sì: Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore, il romanzo un po’ fuori genere che Buzzati scrisse nel 1963, è un affermato architetto di quarantanove anni.

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