Yuval Noah Harari: la potenza delle realtà immaginate

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Durante la mia incursione nei racconti sui viaggi nel tempo ho cominciato a leggere un saggio. Non l’avevo programmata eppure è diventata una lettura in perfetta coerenza col progetto iniziale, come se mi aiutasse a completare uno schema. È stata una piacevole coincidenza; perché pare che le coincidenze esistano, o almeno qualcuno ha scritto un libro nel quale afferma che la casualità è un fatto.

Sto leggendo Da animali a dèi: breve storia dell’umanità di Yuval Noah Harari. Harari fa una riflessione molto interessante che parte da un nucleo centrale, ossia che, sebbene l’uomo preistorico fosse un animale abbastanza insignificante, il cui impatto sull’ambiente era pressoché identico a quello delle lucertole, finché ha potuto ha preferito negare le evidenze della genetica e considerarsi un orfano senza fratelli né sorelle. Unico esemplare al mondo. Così non era, tant’è che pure il Sapiens ha dovuto lottare per conquistare una certa posizione. I primi uomini avevano il cervello più grosso degli altri animali e avevano imparato a camminare su due zampe ma spendevano più tempo nella ricerca del cibo e l’energia destinata al sistema nervoso ne toglieva tutta ai muscoli perciò restarono creature marginali per parecchio tempo. La prima fonte di sostentamento della specie, infatti, era il midollo osseo che veniva delle carcasse, quello che restava delle prede dopo che si erano serviti i leoni, le iene e gli sciacalli. Poi, circa centomila anni fa, gli umani hanno scalato la catena alimentare con una velocità sorprendente; destabilizzante, per l’ecosistema e per se stessi. Questa, dice Harari, «è la chiave per capire la nostra storia e la nostra psicologia».
Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi. Molte calamità storiche, dalle guerre mortali alle catastrofi ecologiche, sono alla conseguenza di questo salto oltremodo veloce. 
Gli elementi che hanno giocato a nostro favore sono stati soltanto due. Il primo: la duttilità del linguaggio. Rispetto agli animali che comunicano il pericolo con un paio di versi, noi abbiamo imparato ad articolare discorsi più complessi, del tipo che c’è un leone vicino al fiume ma che se forse, invece di proseguire in quella direzione, prendi il sentiero e aggiri l’ostacolo te la cavi senza troppi danni. Non proprio così, ma insomma. E poi l’attitudine alla finzione, «la capacità di immaginare le cose e di immaginarle collettivamente»; di conseguenza, l’abilità di trasformare un branco (con tutte le gerarchie che ne conseguono) in una comunità. Da qui i costrutti sociali o “realtà immaginate”. Nei fatti niente è cambiato. Anzi: Albert Einstein aveva un’abilità manuale meno sviluppata di quella di un cacciatore della preistoria. La nostra capacità di cooperare, però, è migliorata in modo esponenziale, tant’è che riusciamo a produrre una testata nucleare grazie alla cooperazione di milioni di individui che lavorano allo stesso progetto da diverse parti del mondo.

Siamo gli stessi di centomila anni fa, quelli che si nascondevano dalle iene e raccoglievano le briciole ai piedi del leone. Ciò che ci distingue, o che dovrebbe distinguerci, è il nostro modo di fare comunità. Lo studio dell’evoluzione, l’analisi della condizione attuale e pure una certa idea del futuro, si basa tutta sulla nostra attitudine a essere società. Siamo in grado di farlo? Cosa dice la storia? I primi uomini erano nomadi e vivevano in piccoli gruppi finché la rivoluzione agricola impose la fissa dimora, la convivenza e la cooperazione. Nacquero così i villaggi, le città, i regni, gli imperi; cambiamenti che, secondo Harari, non si sono realizzati in «un tempo sufficiente perché si sviluppasse un istinto di cooperazione di massa». Abbiamo imparato a collaborare nostro malgrado ma non siamo (e non siamo mai stati) motivati ad agire nell’interesse di grandi collettivi se, alla base dell’accordo, non c’è la traccia di un ritorno personale.

Il Viaggiatore del Tempo del romanzo di H. G. Wells, osservando il futuro del 802.701 – la coesistenza due razze antitetiche, i Morlock e gli Eloj –, è costretto a riconsiderare le proprie aspettative.
Il grande trionfo dell’umanità di cui mi ero illuso assunse nella mia mente ben altra fisionomia. L’educazione morale e la cooperazione universale non avevano affatto vinto come mi ero immaginato: al contrario, mi trovavo di fronte a una vera aristocrazia che, fornita di un sapere sopraffino, aveva portato alla sua logica conseguenza l’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo.
L’immaginario di Wells era alimentato dalle teorie dell’evoluzione di Darwin e dalle preoccupazioni per un uso improprio della scienza che aveva ereditato da Thomas Henry Huxley, suo insegnante di biologia (e nonno di quel Aldous Huxley). Quando il Viaggiatore prova ad andare ancora più avanti nel futuro, quello che vede è: «Il cielo rosso ad est, la tenebra a nord, quel salato Mar Morto, la spiaggia di sassi percorsa da quei mostri schifosi che strisciavano lentamente, l’uniforme verde velenoso dei licheni, l’aria rarefatta che feriva i polmoni: tutto concorreva a un effetto d’orrore». Nel romanzo di Wells, la razza umana passa per un’evoluzione regressiva (le uniche forme di vita rimaste sono crostacei giganteschi che avanzano in un territorio senza luce), uno scenario che, come scrive Michele Mari nella prefazione, è qualcosa che somiglia molto a un’allegoria. Wells era considerato un profeta, uno “storico delle età future” come scrisse Joseph Conrad, non molto diverso da Paul Anderson, lo scrittore di fantascienza protagonista del racconto Pulce d’acqua (1964) di Philip K. Dick (1). Nel racconto, Anderson viene rapito e trasportato nel futuro perché considerato un precog, un individuo dotato di poteri extrasensoriali: era stato in grado di prevedere e perciò di scrivere quello che sarebbe successo negli anni a venire (un po’ come i precognitivi dell’altro racconto, sempre di Philip Dick, che s’intitola The Minority Report e che diede spunto a Steven Spielberg per il film omonimo del 2002).

È fantascienza, eppure è letteratura. Che cos’è la letteratura? Qual è la sua funzione? Secondo Umberto Eco: «la letteratura, contribuendo a formare la lingua, crea identità e comunità. [...] pensiamo a cosa sarebbe stata la civiltà greca senza Omero, l’identità tedesca senza la traduzione della Bibbia fatta da Lutero, la lingua russa senza Puskin (2)». La letteratura, secondo quest’ottica, diventa anch’essa una realtà immaginata, la nostra costruzione più pura. E allora, mentre aspettiamo che scrittori e viaggiatori ci mostrino quello che deve ancora accadere, noi possiamo solo sperare che il nostro percorso, quel lungo tragitto dalla savana alle stelle, si concluda in un futuro meno cupo.



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Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità di Yuval Noah Harari è la storia di quasi tutto in poco meno di seicento pagine; una specie di compendio che non approfondisce ma ripercorre i fondamentali che abbiamo studiato a scuola in modo più critico rispetto a quello che può permettersi di fare un insegnante. Mentre scrivo questo post, il saggio è ancora in lettura, quindi non escludo (anzi, spero) di riflettere un altro po’ e di tornare sugli argomenti.
(1) Il racconto è contenuto nella raccolta Viaggi nel tempo. Einaudi, 2015. A cura di Fabrizio Farina.
(2) Tratto da Su alcune funzioni della letteratura contenuto nella raccolta Sulla letteratura. Bompiani, 2003.

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