«Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro» disse la volpe al Piccolo Principe, «dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi». Il libro di Antoine De Saint-Exupery è pieno di cliché, forse il libro più sopravvalutato al mondo. Ma, nella citazione che ho riportato, l’autore rivela un aspetto interessante: il bisogno che abbiamo di essere rituali. La felicità sembra direttamente collegata al rispetto di un impegno reciproco che si fonda su una routine (“tutti i giorni alle quattro”), un modello prestabilito nel quale la rassicurazione scalza l’insicurezza. E non ci sarebbe niente di male, se a parlare non fosse una volpe. Gli esseri umani, forse, possono aspirare a qualcosa di diverso: l’imprevisto, che il nostro inconsapevole Antoine De Saint-Exupery collega allo stato d’inquietudine.
La comfort zone è una camera di sicurezza, una specie di bunker antipanico dove abbiamo nascosto un centinaio di confezioni di tonno in scatola e un lettore mp3 con una selezione del più nostalgico Bruce Springsteen. Restando nel tema che più c’interessa, nella zona di conforto ci sono i libri nostri, quelli che ci fanno sentire al sicuro. Possono appartenere allo stesso genere, scritti dallo stesso autore, basati sugli stessi meccanismi (rituali?) narrativi o concepiti con lo stesso stile: sono titoli con elementi in comune che li rendono parte di un insieme. Conoscere la propria zona di conforto vuol dire conoscere se stessi, essere consapevoli dei propri gusti. Ma il fatto è: chi può dire di conoscere davvero se stesso? E poi: a quale “se stesso” dobbiamo fare riferimento? Quando proviamo a definirci (in quello che ci piace o non ci piace, per esempio) stiamo già tracciando una linea molto netta di possibilità, dando un’idea di noi strizzata in una divisa che l’anno prossimo ci andrà un po’ stretta. Questo perché noi siamo in divenire, vivi e perciò soggetti ai cambiamenti che la vita ci costringe o ci propone di fare. Come possiamo parlare di preferenze se non abbiamo validi termini di paragone?
La mia zona di conforto attuale è la narrativa statunitense del Novecento: non c’è niente che mi faccia sentire a mio agio come prendere un libro, leggere la sinossi e trovare tutti gli elementi che fanno di un romanzo una vera american story. Non è sempre stato così, non è detto che lo sarà per molto tempo, ma ciò che conta è che quella per la letteratura americana è una passione che non avrei scoperto se non fossi uscita dal mio bunker precedente (quel giorno che, per caso, comprai un libro di Philip Roth). C’è un certo pregio nella specializzazione: conoscere in modo approfondito un settore – che sia di studio o di svago – è un valore aggiunto che condivido e incoraggio. Perciò avere una zona di conforto non è peccato, finché la camera non diventa una gabbia. Potremmo pensare alla nostra vita, e alla nostra vita da lettori, come a un’operazione di finanza: un buon investitore sa che, per trarre il massimo profitto dal mercato, deve costruire un portafoglio diversificato, in grado di sopperire al rischio di un investimento incerto con la sicurezza di una scommessa facile. Questo vuol dire: di tutto un po’. Il consiglio di un broker onesto dovrebbe essere quello di trasformare l’imprevisto in esperienza e l’azzardo in opportunità. Così, se un blogger è un po’ un intermediario, il mio consiglio è: sperimentiamo, lasciamoci tentare dalla curiosità. Non è detto che il nostro rifugio sia così comodo tra un anno, non è detto che non ce ne sia già uno migliore, e l’unico modo per scoprirlo è vedere cosa succede fuori dal recinto. O, nel nostro caso, appena qualche scaffale più in là.
La mia zona di conforto attuale è la narrativa statunitense del Novecento: non c’è niente che mi faccia sentire a mio agio come prendere un libro, leggere la sinossi e trovare tutti gli elementi che fanno di un romanzo una vera american story. Non è sempre stato così, non è detto che lo sarà per molto tempo, ma ciò che conta è che quella per la letteratura americana è una passione che non avrei scoperto se non fossi uscita dal mio bunker precedente (quel giorno che, per caso, comprai un libro di Philip Roth). C’è un certo pregio nella specializzazione: conoscere in modo approfondito un settore – che sia di studio o di svago – è un valore aggiunto che condivido e incoraggio. Perciò avere una zona di conforto non è peccato, finché la camera non diventa una gabbia. Potremmo pensare alla nostra vita, e alla nostra vita da lettori, come a un’operazione di finanza: un buon investitore sa che, per trarre il massimo profitto dal mercato, deve costruire un portafoglio diversificato, in grado di sopperire al rischio di un investimento incerto con la sicurezza di una scommessa facile. Questo vuol dire: di tutto un po’. Il consiglio di un broker onesto dovrebbe essere quello di trasformare l’imprevisto in esperienza e l’azzardo in opportunità. Così, se un blogger è un po’ un intermediario, il mio consiglio è: sperimentiamo, lasciamoci tentare dalla curiosità. Non è detto che il nostro rifugio sia così comodo tra un anno, non è detto che non ce ne sia già uno migliore, e l’unico modo per scoprirlo è vedere cosa succede fuori dal recinto. O, nel nostro caso, appena qualche scaffale più in là.
Una riflessione molto valida, nella quale mi riconosco: per tanto tempo la mia comfort zone sono stati i classici, più precisamente i romanzi dell'Ottocento o del primo Novecento. Fortunatamente poi ho accettato il rischio e mi sono sempre più aperta agli autori contemporanei, trovandovi altrettante soddisfazioni. Di qui a prendere in considerazione non solo le letterature più familiari alla nostra cultura ma anche quelle di tradizioni che non conoscevo affatto (nordeuropea, sudamericana, orientale, africana) il passo è stato breve.
RispondiEliminaHai detto una cosa giusta: tutto sta nel primo passo; una volta avviata l’apertura, muoversi in più direzioni (magari correlate, che male non fa) non è così difficile.
EliminaPenso che siamo proprio noi ad inventare invece i cliché. Non sarebbe più giusto lasciarci trasportare da quello che noi sentiamo veramente? Aprirsi, muoversi in più direzioni, si certo, ma inevitabilmente esiste sempre un filo invisibile che collega tutte le nostre letture o altre passioni. Ho provato con altri generi, altre tematiche, alcune si sono rivelate fondamentali, altre interessanti, con altre ancora ho lasciato proprio perdere alla fine. Non riesco a pensare a ciò che leggo come una gabbia, non so... Le buone letture pur simili sono comunque sempre diversissime e stimolanti perché gli spunti sono tanti e altrettante le sfumature. Penso alla lettura come sentimento, passione e battaglia, ben poco all'economia (che poi non ne capisco nulla). Anche definire il "Piccolo Principe" un libro sopravvalutato è un cliché (poi ognuno ha le sue idee), comunque leggere (e intendo leggere bene) non è mai una gabbia, almeno per me.
RispondiEliminaAh sì, certo! Non ho mai pensato di essere immune ai cliché (anche se, continuando a palleggiare, il gioco può durare all'infinito). L’hai detto tu stessa, comunque: «Ho provato con altri generi, altre tematiche, alcune si sono rivelate fondamentali, altre interessanti, con altre ancora ho lasciato proprio perdere alla fine». Hai provato: questo è il punto, e questo è proprio l’atteggiamento che io volevo incoraggiare.
EliminaAh ci mancherebbe, per questo ho scritto così, ma (personalmente) non mi sono mai sentita in gabbia nelle letture, non credo in una comfort zone, anche le letture più affini potrebbero essere un rischio, poi, magari sarò l'unica al mondo !
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