La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead



L’abolizione dello schiavismo non bastò a fermare le persecuzioni dei neri d’America. Anzi, in alcuni stati del Sud gli episodi di linciaggio diventarono solo più violenti. Molti autori ne hanno scritto e diversi registi sono stati ispirati (due tra i miei film preferiti sull’argomento sono Mississippi burning e The birth of a Nation), ma se penso a quel periodo della storia americana e all’arte come interpretazione dell’orrore, non posso fare a meno di citare Strange fruit
Strange fruit è una canzone scritta da Abel Meeropol, un insegnante ebreo che veniva dal Bronx. Quando Abel vide la foto scattata da Lawrence Beitler dell’esecuzione di due schiavi neri in Indiana, rimase così impressionato da non riuscire a dormire per diversi giorni. Scrisse la poesia Bitter Fruit (Frutto amaro), che poi diventò la più nota canzone quando incontrò la voce di Billie Holiday nel 1939. Sembrava un connubio deciso anzitempo: ogni verso della canzone trovò la giusta dimensione grazie al carico emotivo aggiunto dalla Holiday (figlio di un’esperienza di vita non troppo felice della cantante).
«Southern trees bear a strange fruit,
blood on the leaves and blood at the root,
black body swinging in the Southern breeze,
strange fruit hanging from the poplar trees».

«Gli alberi del Sud danno uno strano frutto,
sangue sulle foglie e sangue sulle radici,
un corpo nero dondola nella brezza del sud,
strano frutto appeso agli alberi di pioppo
».
Ultimo della fila è lo scrittore Colson Whitehead che con La ferrovia sotterranea si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la narrativa 2017. Cora, la protagonista del libro, è diretta verso la Carolina del Nord quando assiste alle stesse scene narrate nella canzone della Holiday. Nudi o vestiti, non più donne né uomini, neanche corpi: sono avvertimenti, simboli che pendono dagli alberi e si susseguono per interi chilometri. Complice un umorismo di cattivo gusto, i bianchi chiamano quella strada Il sentiero della libertà
Cora era scappata dalla Georgia, dalla piantagione di cotone dov’era nata e dove sua madre l’aveva abbandonata all’età di dieci anni. Caesar le aveva raccontato che c’era una speranza, un percorso segreto che attraversava tutti i paesi del Sud: la ferrovia sotterranea. Cora non voleva scappare; per una come lei, un’orfana cresciuta tra risentimenti e frustate, la libertà era un pensiero proibito. Ma presto si rese conto di non avere un’alternativa perché restare alla tenuta dei Randall era solo assicurarsi una morte più lenta e meno dignitosa.

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La ferrovia sotterranea, così come ci viene descritta nei libri di storia, era una rete di luoghi sicuri e persone fidate gestita dagli abolizionisti, ma per il suo libro Colson Whitehead ha immaginato una linea ferroviaria vera, fatta di locomotive, binari e stazioni. 
Il romanzo si sviluppa seguendo la fuga di Cora attraverso gli stati della Carolina del Sud e del Nord, del Tennessee e dell’Indiana. Durante il cammino, Cora si scontra con le storie di altri personaggi, a partire dalle vicende della nonna Ajarry fino alla verità sulla fuga di sua madre. 
Spostandosi da un paese all’altro, la donna comincia a capire che la schiavitù può assumere varie forme: la sterilizzazione strategica e gli esperimenti sugli schiavi della Carolina del Sud sono soluzioni più ingegnose che i bianchi avevano trovato per arginare “la questione dei neri”.

Cora fugge da una stazione all’altra, ogni volta che l’illusione di un rifugio si risolve in una retata o in un incendio. Non ha niente che le appartenga, neanche il dolore: la sua è una storia qualunque, simile a tante altre. Ma in questo gioco di ruolo anche l’uomo bianco è una pedina perché il suo impero è fondato sulla paura. I neri sono più numerosi, più forti, sempre più arrabbiati e prima o poi si sarebbero ribellati. «L’ombra della mano nera che viene a restituire ciò che le è stato dato»: per quanto tempo i bianchi sarebbero stati al sicuro prima che i figli di Cam decidessero di rovesciare le parti? È quello che cerca di spiegare il cacciatore di taglie Ridgeway quando cattura Cora per ricondurla dal padrone e incassare la ricompensa: «Anche tu hai delle tue giustificazioni. È proprio di questo che sto parlando: la sopravvivenza».

La narrazione diventa più coinvolgente a partire dalla seconda metà. I personaggi restano un po’ schiacciati dal peso dell’argomento trattato, in generale non sono così originali. Lo stile è abbastanza lineare, senza grossi slanci, forse l’intenzione dell’autore era quella di affiancare allo sviluppo della storia una voce narrante che non fosse troppo ingombrante. 
È come se tutti gli elementi della scrittura fossero al servizio del tema, nel bene e nel male. Qualcuno ha definito La ferrovia sotterranea un romanzo storico, altri hanno visto un’eco del realismo magico di García Márquez. Io credo che sia anche un libro di reazione che inevitabilmente si confronta con la condizione attuale degli afroamericani: il razzismo è un pensiero radicato, come ammette lo stesso Whitehead in qualche intervista, un virus che si trasforma, si fortifica e trova nuovi modi d’infettare le relazioni sociali. Perciò è importante scriverne, anche solo per capire se oggi rispetto a ieri la differenza è diventata così sostanziale.



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La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead. Edizioni sur, 2017. Traduzione di Martina Testa.
* Una versione bellissima di Strange fruit è quella di Nina Simone del 1965.



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