Non c’è alcuna porta | Thomas Wolfe

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La mia vita, più della vita di ogni altro che conosco, è stata spesa in solitudine e vagabondaggio. Perché ciò sia vero, o come sia accaduto, non l'ho mai saputo; ma è così. (...) E questo è davvero sconcertante, perché non mi è mai sembrato di averla cercata, la solitudine; e neanche che mi fossi ritirato volontariamente dalla vita, o che avessi interposto un chissà che muro tra me e tutta la furia, il tumulto della terra. Ho amato così intensamente la vita che quasi diventavo matto per la sete e la fame che sentivo verso di lei. Una fame così vera, così crudele e fisica che sembrava voler divorare la terra con tutti i suoi abitanti.
Al college mi aggiravo quasi di soppiatto tra gli scaffali della grande biblioteca, di notte, tirando fuori libri da migliaia di ripiani e leggendoli come un pazzo. Il pensiero di questi scaffali immensi mi faceva impazzire; più leggevo, meno mi sembrava di sapere; maggiore era il numero di libri che leggevo, più estesa, grande e incommensurabile mi sembrava la quantità di libri che non avrei mai potuto leggere. In dieci anni ho letto almeno ventimila volumi e ho sfogliato e dato un'occhiata a un numero di libri di gran lunga più elevato. Se ciò sembra incredibile, mi dispiace, ma è così. E, nonostante tutto, questa terrificante orgia di libri non mi ha portato alcun conforto, pace, o saggezza nella mente e nel cuore. Al contrario, la mia furia e la mia disperazione crescevano per via di quel nutrimento, la mia fame montava per il cibo che riceveva.
Ed era lo stesso per qualunque altra cosa facessi.
Il fatto è che questa furia che mi aveva spinto a leggere così tanti libri non aveva niente a che fare con la scuola, niente a che fare con gli onori accademici, né con l'insegnamento istituzionale. Non ero uno studente in alcun senso, e non avrei voluto esserlo. Volevo semplicemente conoscere tutto, e impazzivo quando mi rendevo conto di non poterlo fare. Nel bel mezzo di un furioso parossismo di letture all'interno dell'enorme biblioteca, il pensiero delle strade là fuori e della grande città tutto intorno mi trafiggeva il corpo come una lama. Ora mi sembra che ogni secondo passato sui libri sia stato sprecato – che in quel momento qualcosa d'impagabile, di irrecuperabile stava accadendo nelle strade, e se solo avessi potuto raggiungerlo in tempo e vederlo mi si sarebbe in qualche modo chiarito tutto quel che avevo dentro – la sorgente, il pozzo, la fonte da cui sgorga ogni uomo, ogni parola, ogni azione e ogni trama di questa terra.
E sarei corso nelle strade per trovarlo, mi sarei precipitato nel sottopasso per Boston e da lì avrei girato selvaggiamente per ore in centinaia di strade, guardando in faccia un milione di persone, provando a cogliere un'immagine istantanea e definitiva di tutto quel che avevano fatto e detto, di tutto quel che erano stati, dei loro milioni di destini. E avrei battuto le strade furenti finché le ossa, il cervello e il sangue non ne avessero potuto più – finché ogni tendine dell mia vita non si fosse strappato, tremante ed esausto, e il mio cuore non fosse affondato sotto il peso della sua stessa disperazione e desolazione.
(da Dalla morte al mattino di Thomas Wolfe. Traduzione di Jacopo Lenkowicz. pp. 30-32)


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