La cura di Jean-Paul Sartre: la Letteratura

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La Nausea non è sempre stata La Nausea. Il titolo del libro doveva essere Melancholia, ispirato dall'incisione Melancholia I del pittore Albrecht Dürer. Fu l'editore Gallimard a rielaborare il titolo, convinto che fosse più «favorevole al lancio dell'opera». Eppure io credo che il concetto di melancolia avrebbe interpretato meglio il cuore del romanzo, così lontano da una concezione materialistica dell'uomo, più affine a un'idea metafisica dell'esistenza. Per questo, infatti, una cura esiste ma non proprio. Esiste un palliativo, una sorta di compromesso.

Dobbiamo accompagnare Antonio fino alla fine del romanzo, al termine della sua esistenza narrativa, per trovare l'antidoto. Seduto al tavolo del solito bar, ogni sera ascolta sempre lo stesso disco: Some of These Days, nella versione di Ethel Waters.

«Some of these days
you'll miss me honey»

Antonio è deliziato, estasiato, come sotto un incantesimo. Anche la Nausea si placa, al ritmo della voce di lei. Niente ha più motivo d'esistere di quella melodia. La voce è limpida e splendente, eterna e invincibile. La canzone è, libera e incondizionata, estranea anche alla cantante, a cui Antonio riconosce solo il merito di averla posseduta in quel frangente che era stata la sua vita. In che modo Antonio avrebbe potuto essere non essendo, come quella voce?
Non potrei forse provare... Naturalmente, non si tratterebbe d'un motivo musicale... ma potrei forse, in un altro genere? ... Dovrebbe essere un libro: non so far altro. (...) Non so bene quale – ma bisognerebbe che s'immaginasse, dietro le parole stampate, dietro le pagine, qualche cosa che non esistesse, che fosse al di sopra dell'esistenza. Una storia, per esempio, come non possono capitarne, un'avventura.
Una vita raccontata vale più di una vita vissuta, ci suggerisce Antonio. «Un po' morti, un po' eroi da romanzo», è nella letteratura che ci solleviamo dal peccato di esistere. Questa è una conclusione squisitamente filosofica e perciò troppo sfuggente perché si alimenta e si consuma in una dimensione che non ha consistenza. Se volessimo rendere il discorso più concreto, potremmo dire che ogni vita ha in sé una motivazione, se giudicata dagli occhi di un buon narratore. Una lunga (e bellissima) digressione di Antonio comincia così:
Per esempio quando ero ad Amburgo con quell'Erna di cui non mi fidavo e che aveva paura di me, menavo un'esistenza strana. Ma c'ero dentro, e non ci pensavo. Poi, una sera, in un piccolo caffè di San Pauli, ella mi lasciò per andare al lavabo, ed io rimasi solo. C'era un fonografo che suonava Blue Sky. Mi misi a raccontarmi quello ch'era avvenuto al mio sbarco. Mi dissi: «La terza sera, mentre andavo in un dancing chiamato la Grotta Azzurra, ho notato un pezzo di donna mezza ubriaca. E quella donna è quella che attendo in questo momento, mentre ascolto Blue Sky, e che sta per tornare a sedersi alla mia destra e a circondarmi il collo con le sue braccia». Allora ho sentito accuratamente che avevo un'avventura. Ma Erna è tornata, mi si è seduta accanto. m'ha circondato il collo con le braccia ed io l'ho detestata, senza sapere bene perché. Lo capisco ora: bisognava ricominciare a vivere e l'impressione dell'avventura era svanita.
Egocentrico e tendenzialmente asociale, Sartre trasferisce in questo libro le sue teorie sull'uomo solo, sull'isolamento come condizione irreparabile. Ma, io credo, in un universo di solitudini che non hanno motivo d'essere, la somma delle singole assurdità può assumere un significato pieno. Una sorta di comunione che riconosce nella vita stessa una ragione. «Le avventure si trovano nei libri», dice Antonio a un certo punto, ma vivendo il racconto della nostra vita possiamo rovesciare il sistema e liberarci dalla responsabilità di trovare un senso, dove un senso non c'è.



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[Mi raccomando, leggi il post gemello: La malattia di Antonio Roquentin]
La Nausea, Jean-Paul Sartre. Einaudi, 2014. Traduzione di Bruno Fonzi.
 

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