TI RACCONTO | Sabato di Quim Monzó


(Una rubrica che è un po’ una scusa per parlare delle mie storie preferite. Ti racconto un racconto, mi fermo a un certo punto. Lascio a te il compito di scoprire come va a finire.)

Entra tutta in una scatola di scarpe con i bordi ammaccati: la sua vita è un mucchio di fotografie passate dal grigio al colore anno dopo anno. Avrebbe dovuto metterle in ordine, sistemarle da qualche parte, l’aveva sempre detto ma non l’aveva mai fatto. Adesso non ha più molta importanza. Quello che cerca è uno scatto di loro due insieme, uno sotto il braccio dell’altra. Lui, suo marito, ha i capelli acconciati con la brillantina, come li portava sempre. Lei continua a guardarlo mentre prende le forbici dalla tasca del grembiule. Tre tagli netti, una piccola esitazione nel punto d’intersezione tra le due braccia. Se avesse voluto restare intera avrebbe dovuto tenere anche il braccio di lui, per sempre aggrappata a qualcosa che non apparteneva a nessuno. Solo lei allora, un sorriso gelato che punta all’obiettivo e un mazzo di gelsomini. Continua a tagliare, suo marito è una pioggia di coriandoli. Mette la metà di se stessa nella scatola e mette la scatola nell’armadio, raccoglie i vestiti di lui, infila tutto in un sacco, indossa la giacca ed esce. Spinge la busta dentro al cassonetto, va a fare colazione alla caffetteria del carrer Balmes. Torna a casa, si toglie la giacca, si rimette il grembiule. In fondo al corridoio vede la foto che scattarono una settimana prima del matrimonio. È appesa alla parete, la cornice è di legno scuro. La solleva, sfila la foto strappando il cartone sul retro. Prende le forbici, esita di nuovo sulle braccia e poi taglia. Ci sono ancora alcune camicie di lui sulla sedia a dondolo della camera da letto. Prende le camicie, prende il sacchetto, prende la giacca. Quando torna a casa accende la televisione ma non la guarda, prende un romanzo ma non lo legge. C’è un libro di lui poggiato sul tavolino. Lo apre, legge la prima riga. Strappa una pagina, due, tre, strappa il libro a metà lungo il dorso. Quando si alza per andare in cucina si accorge di un paio di pantaloni che spuntano dal cesto della biancheria. Si avvicina, rovista nel mucchio e trova altri due pantaloni e cinque camicie. Riempie due grossi sacchi, indossa la giacca e, dopo il cassonetto, passa in caffetteria. Gli orologi, i calzini e le cravatte occupano altri sacchi. Si toglie il grembiule, indossa la giacca ed esce. Decide di non andare al bar, meglio tornare subito a casa. Si chiede se si sta comportando in modo rigoroso. Pensa di no. Indossa il grembiule senza togliersi la giacca. Prende un’altra volta la scatola dall’armadio, cerca tra le foto quel ritaglio dei lei senza un braccio. Si trova, si guarda, fruga nella tasca del grembiule. Taglia. Getta tutto in una busta, anche la cornice di legno scuro. Torna all’armadio e tira fuori i cassetti dove lui teneva la biancheria. Fa un po’ fatica a farli passare dall’ascensore. Ormai il cassonetto è pieno, è costretta a lasciare ogni cosa lì accanto. Dalla cassetta degli attrezzi prende un cacciavite e inizia a smontare le porte dell’armadio. Altri quattro viaggi. Per la poltrona ne basta uno. Capovolge il tavolo, staccando le gambe una alla volta. Ammucchia tutto nell’anticamera, aspetta che si faccia notte perché non vuole tenere troppo occupato l’ascensore. Uovo al tegamino, patatine fritte e un pomodoro tagliato in due. Quando scende con il materasso c’è un uomo che sta aspettando l’ascensore. Vorrebbe aiutarla ma lei sente di non aver bisogno d'aiuto. Con il frigorifero è già più complicato che con il televisore. Per smontare i battenti delle finestre deve solo spingere lungo i bordi ma deve usare il martello e lo scalpello per estrarre gli infissi. Quando raggiunge la caffetteria del carrer Balmes è notte fonda, le luci sono già spente. Prima di svitare i bulloni del water chiude il rubinetto generale dell’acqua. Deve tirare un paio di calci alla tazza per riuscire a staccarla dal muro. Poi passa al lavandino, che cade e si scheggia. Indossa il suo grembiule, si avvicina alle piastrelle. «È tutto il giorno che mette in ordine e non finisce mai».

***

Non mi aspettavo un racconto del genere da un “animatore di caustiche trasmissioni televisive”, come il risvolto di copertina descrive Quim Monzó. La raccolta che comprende Sabato s’intitola Mille cretini. Come promesso, mi sono fermata un attimo prima della fine, il momento nel quale tutto si compie nel modo più naturale possibile. È questo, questa naturalezza, a rendere la storia ancora più terribile, perciò più efficace. Perché seguiamo i gesti della donna come se fossero delle piccole cerimonie. La ripetitività c’incanta. Immaginiamo la sua espressione, impariamo quasi a conoscerla, eppure non vediamo in lei alcun punto di rottura. Solo a posteriori ci rendiamo conto della situazione in cui si trova, e anche noi, di conseguenza, ma è troppo tardi per tornare indietro. Non c’è distanza tra disagio e malattia, nessun segno di allarme. Sembra tutto così ovvio, dopo. Inevitabile.


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