La malattia di Antoine Roquentin: la Nausea

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«Dopo aver viaggiato a lungo, Roquentin si è stabilito a Bouville, tra feroci persone dabbene.»
Jean-Paul Sartre lo chiarisce subito: Antoine Roquentin è diverso da tutti gli altri. La gente di Bouville è feroce e dabbene. La distinzione ci fa supporre, per differenza, che Antoine (Antonio, nell'edizione italiana) non sia feroce e neanche tanto dabbene. Questo è l'incipit della prefazione che l'autore scrisse per la prima edizione del suo romanzo, La nausea. Ma che cos'è la Nausea?
Compresi che non c'era via di mezzo tra l'inesistenza e questa sdilinquita abbondanza. Se si esisteva, bisognava esistere fin lì, fino alla muffa, al rigonfiamento, all'oscenità. (...) Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto.

Il primo sintomo si manifestò durante una passeggiata, quando Antonio raccolse un ciottolo e lo strinse tra le mani. Solo questo. L'episodio era irrilevante, eppure sentì il bisogno di appuntarlo sul suo diario. Tenere quel sasso gli aveva dato una strana sensazione. Si era accorto che quella cosa esisteva. Non aveva soltanto una massa, un peso e una dimensione: esisteva in senso stretto, aveva una sua presenza. Era un pensiero nuovo, che non gli era mai capitato prima. Quello (ma Antonio non poteva ancora saperlo) è il primo stadio della malattia. M'invento un nome, perché Sartre non l'ha fatto. La chiamo: la nausea dalle cose.

Antonio si accorge che gli oggetti esistono: tutto esiste, lui non lo sapeva. Anzi, l'aveva sempre saputo ma non ci aveva pensato prima, il che lo fa sentire peggio perché le cose esistevano in quel modo da tanto tempo e lui non si era mai soffermato. Antonio si sente oppresso da questa nuova consapevolezza, che avverte come un'improvvisa e sfacciata illuminazione. Noi lo seguiamo arrancare per strada, tra i palazzi, dentro i vicoli, con un passo sempre più incerto. «Avrei desiderato che le cose esistessero in maniera meno forte». Ha l'impressione che le estremità degli edifici si uniscano, chiudendosi sopra di lui per oscurargli il cielo.

Un pensiero rincorre un altro pensiero: come le cose esistono, le persone esistono. Gli uomini sono in modo osceno, feroce. Si appropriano di un diritto che pensano sia loro dovuto. Perché non capiscono quanto siano inutili nel loro esistere, che abuso sia occupare uno spazio nel mondo senza uno scopo preciso? Eppure... vivono, eppure, qualche volta, vivono felici. Non vedono, come Antonio non vedeva. Ecco perché sono così cordiali l'uno con l'altro, perché si sopportano? Come se non fosse uno sforzo frequentarsi. Si amano, addirittura, almeno così credono. Un amore superficiale in un'esistenza superficiale. Sono persone così "dabbene". Scivolando nella seconda fase della malattia, Antonio soffre della nausea dagli uomini.

L'evoluzione del disagio raggiunge il picco più drammatico quando Antonio inizia a domandarsi: che senso ha la mia esistenza? La risposta, abbastanza prevedibile, non ha bisogno di spiegazioni. Antonio è nauseato dalla violenza dell'essere, dalla superficialità degli uomini, disgustato più di tutto da se stesso perché sa che per meritarsi di esistere la sua vita dovrebbe avere un senso. Ma non trova alcuna motivazione in sé, non è importante per l'umanità. Egli stesso non è interessante: non è bello, non è particolarmente intelligente. Soprattutto: non ha mai vissuto delle grandi avventure, quelle per cui la vita è "degna di essere vissuta".

La nausea da sé si sviluppa in un episodio che vede protagonista Roquentin e il personaggio conosciuto come l'Autodidatta (di cui Sartre non ci rivelerà mai il nome). L'Autodidatta ha un'ammirazione sconfinata nei confronti di Antonio, anche se non parlano spesso perché Roquentin non gli dedica troppo tempo. In uno di quei momenti nei quali Antonio si concede al dialogo, l'Autodidatta confida le sue aspirazioni: terminati gli studi, dice, vuole fare una crociera in Medio Oriente. E poi vuole «dell'imprevisto, del nuovo, delle avventure, insomma». Lei ha avuto qualche avventura, signore? Antonio è perplesso, risponde che qualcuna, probabilmente... chi non ne ha avute? L'Autodidatta, un po' impacciato ma troppo curioso, gli chiede di raccontargliene una. Antonio abozza qualche storia, gli mostra un paio di fotografie, ma poi con una scusa allontana l'Autodidatta perché ha necessità di riflettere su una questione molto importante:

Io non ho avuto avventure. Mi son capitate delle cose, dei fatti, degli incidenti, tutto quel che si vuole. Ma non avventure. Non è una questione di parole; comincio a comprendere. (...) Era... insomma, m'ero immaginato che in certi momenti la mia vita avrebbe potuto assumere un'essenza rara e preziosa. Non c'era bisogno di circostanze straordinarie (...). La mia vita presente non ha niente di molto brillante (...). Ho saputo d'improvviso, senza una ragione apparente, d'aver mentito a me stesso per dieci anni.
Secondo Sartre l'uomo ha la responsabilità totale dell'esistenza. Di una conferenza avvenuta nel '45, che diventò il saggio L'esistenzialismo è un umanismo, una delle frasi più rappresentative fu: «L'Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa». Applicando questo principio alla realtà del personaggio, Antonio non ha scampo. Esistere non ha alcun senso, è così insignificante la sua vita che neanche la morte gli è concessa. Uccidersi sarebbe qualcosa, e qualcosa è più di niente. È già troppo.
Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenza superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. (...) io ero troppo per l'eternità.

La domanda è: esiste una cura alla Nausea?



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[Leggi il post gemello: La cura di Jean-Paul Sartre]
La Nausea, Jean-Paul Sartre. Einaudi, 2014. Traduzione di Bruno Fonzi.

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