La Natura e la Storia in Ferito a morte di Raffaele La Capria

Ho scritto, qualche giorno fa: certi libri non vogliono lasciarci andare. È retorica, me ne rendo conto, ma soprattutto è una bugia perché le storie non appartengono a nessuno; si lasciano sfogliare con lo stesso incanto della prima volta, per poi ricomporsi e offrirsi al lettore successivo con la promessa di un'intimità esclusiva. È difficile immaginare che quell'emozione sia già stata vissuta da qualcun altro, vicino o lontano nel tempo, così simile e così differente da noi. È un po' la presunzione dell'innamorato, quando crede che niente di così intenso come il sentimento che prova sia mai esistito. Eppure succede, succede ogni volta. Allora è meglio dire (meglio ammettere): certi libri non vorremmo lasciarli andare.
Perché sei rimasto, che cosa ancora ti trattiene? E potevo dirgli la cosa assurda? Potevo dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com'era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza — e rimettere tutto a posto da quel punto.
La lettura di Ferito a morte è stata una delle più insolite di tutta la mia vita. Perché si è svolta con un ritmo lento, lentissimo, che non corrisponde al mio. La verità è che avrei voluto che non finisse mai. Ma è stato difficile entrare nella storia: ho letto l'incipit più di una volta, senza venire a capo di nulla. Ho proseguito per qualche pagina, cercando di individuare un appiglio al quale aggrapparmi. Giunta al terzo capitolo sono tornata indietro e ho ricominciato, dall'inizio. La prosa di Raffaele La Capria mi sfuggiva, per lo stesso motivo mi attirava sempre più a sé. 

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Il libro si apre sul finire di un sogno, ed è questa la sensazione che ci avvolge, che ci accompagna fino alla fine: un dolce stordimento, come nell'attimo che passa tra la veglia e il sonno. Come se, in un caldo mattino estivo, non avessimo ancora aperto gli occhi. O magari solo un po', con la luce che filtra appena dalle palpebre socchiuse. Qualche suono, troppo lontano. Quasi un altro mondo, di là. E Massimo, ogni volta lo stesso sogno, ogni volta è sempre più fatica distinguere l'uno dall'altro: il mondo in cui vive, fatto di vere giornate tutte uguali, e l'altro mondo, quell'unica, bella giornata. Il sapore, proprio, della bella giornata. E poi la Grande Occasione Mancata. Una domanda, la stessa da allora: è possibile, per un solo istante, arrivare a perdersi, e perdersi per sempre? 
Domani e poi domani quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua o come quando morirò, ora o tra mille anni indifferenti e uguali, per ogni domani separati da me, irrecuperabili come il suo sguardo.
La poesia, disarmante, di alcuni passaggi. La bellezza e l'intelligenza di una scrittura innovativa, antica e comunque attuale. La potenza evocativa di parole che sono immagini, che basta allungare una mano. E allora scrivere diventa qualcosa di più, diventa: te lo mostro, quello che voglio dire. Un romanzo corale, fatto di voci che si alternano e si confondono, e anche Massimo, smarrito nel tempo di un ricordo infinito, si racconta in terza persona. Io, lui e lei, e loro, ancora: che differenza fa?
Quel bacio imprevedibile, troppo esperto, quell'ardore negli occhi, e già dentro di me qualcosa come una reticenza, un presentimento. I suoi capelli vivi sul mio viso, luminosi nella notte, il suo odore con quello del mare dentro, del mare che striscia sui ciottoli freddi, fin quasi ai nostri piedi.
Napoli, la Gran Madre Napoli, la vera protagonista di tutti i romanzi di Raffaele La Capria. Una città «che ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutt'e due le cose insieme». La Foresta Vergine, odiata e amata; temuta, sconfitta, sempre sognata. La Natura che disobbedisce alla Storia. L'unico modo per salvarsi? Scappare dallo spettro dell'indulgenza, in una città senza Vesuvio e senza estati, senza quel mare che ti racconta la tua vita e quella di tutti gli altri prima di te, uguali a te, comunque diversi, diversamente vittime, sempre carnefici. Ma scappare «è una specie di rottura con la realtà, un'evasione dalla Storia, e solo la Storia ha senso». Allora non c'è scampo, per chi nasce nella Foresta. Solo: sopravvivere.
Mangiare, qui, non è una forma di suicidio? (...) la Foresta Vergine fin dentro le budella.
La verità è che Ferito a morte è un libro che non finirà mai, perché credo che mai smetterò di leggerlo. 



*** 
Ferito a morte, Raffaele La Capria. Mondadori, 2001.

Commenti

  1. Brava, brava e ancora brava. Sarà che l'ho letto anche io, insieme a te, ma ritrovo tutte le sensazioni che ho provato anch'io pur avendo visto solo di sfuggita la Foresta Vergine/Napoli.
    Paola C.S.

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  2. "E allora scrivere diventa qualcosa di più, diventa: te lo mostro, quello che voglio dire". Hai descritto perfettamente quello che ho pensato leggendo anche solo l'incipit di questo romanzo. Tutti gli scrittori dovrebbero seguire questa indicazione; avremmo meno libri, ma di maggiore qualità.

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  3. una srittura circolare di cui non si trova il capo , che produce una danza i cui passi non si ripetono, una imprevedibilità diabolica, pura bellezza della parola, quasi senza sintassi.

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