La fine della guerra | Don Carpenter

«Come sta andando?» chiese Charlie con calma, senza ansia. Bill si drizzò a sedere e posò il manoscritto. «Sei pronto a leggere un grande romanzo?» disse increspando le labbra in un sorriso. «Sei pronto a impazzire per un libro?»
«Sì» disse Charlie sorridendo. Cominciava a sentirsi meglio. Bill rovistò attorno a sé e riemerse con una grossa, irriconoscibile catasta di pagine tenute insieme da larghi elastici. «È il mio?»
Bill gli porse il manoscritto. «Mi sono preso la libertà di farlo ribattere. Era un po' un disastro, sai.»
Charlie lo soppesò. Non potevano essere più di cinquecento cartelle. Delle almeno millecinquecento che lui aveva presentato nel complesso. «Quanto ti trattieni in città?» domandò a Bill. «Posso leggerlo o richiamarti, o magari ci vediamo da qualche parte.»
«Stai scherzando?» ribatté Bill. «Voglio che tu lo legga adesso, qui».
Charlie obbedì passivamente, sedendosi e sfilando gli elastici. Non voleva leggerlo lì. Ne avrebbe scorso qualche pagina, avrebbe detto qualcosa di gentile e poi si sarebbe portato a casa il malloppo. «Bel titolo, scherzò». Era il suo, La fine della guerra. Il problema non era il titolo, il titolo piaceva a tutti. Cominciò a leggere il primo paragrafo. Squillò il telefono e Bill rispose senza neanche abbassare la voce, prendendo appuntamento con qualcuno. Charlie proseguì a leggere, il volto una maschera di torpore. Qualcuno bussò e Bill balzò in piedi, scambiò qualche borbottio alla porta e tornò con un altro voluminoso manoscritto impacchettato con spago e carta da regalo. Charlie andò avanti a leggere, sentendosi ghiacciare il cuore in petto. Non riconosceva quasi nulla, a parte i nomi dei personaggi e qualche parolaccia sparsa. Il resto era stato modificato così a fondo che nel leggere provava una sensazione di vertigine, quasi stesse per svenire. Lesse mentre Bill parlava al telefono, aspettando di vedere se i plateali interventi di riscrittura si interrompessero, magari dopo il primo capitolo. No. Andavano avanti, pagina dopo pagina di cose che lui semplicemente non riconosceva e che non gli piacevano per niente. Stava gradualmente perdendo la pazienza. Il suo romanzo era stato trasformato in un mucchio di merda. Smise di leggere, il manoscritto sulle ginocchia. Trasse un gran respiro, cercando di riprendere il controllo.
«Allora?» chiese allegro Bill. «Che ne pensi?»
Charlie rifletté a fondo. Non aveva nulla contro Ratto. Bill aveva solo cercato di rendersi utile. Si era impegnato a fondo per trasformare il manoscritto di Charlie in un romanzo pubblicabile. E forse ci era riuscito. Era sufficientemente scorrevole. Fin troppo, in realtà. Aveva un bel tono furbetto. Poteva essere un buon esempio di letteratura commerciale, non più inutile di un ammasso di parole sulla carta.
«Allora?» L'espressione di Bill era quella di chi è pronto a ricevere un complimento.
Charlie sospirò. «Eh.» Posò con delicatezza il manoscritto sul pavimento e si alzò. «Non posso farlo, Bill.» Sorrise imbarazzato, gli occhi a terra. «Vi restituirò quello che mi avete dato. L'anticipo. Mi dispiace.»
La sorpresa sul volto di Bill Ratto non avrebbe potuto essere più completa.
(da I venerdì da Enrico’s di Don Carpenter, Frassinelli, 2015. pp. 205-206. Trad. di Stefano Bortolussi)

Commenti

  1. Gli editor sono sempre dipinti come quelli cattivi. Ma non è vero: il compito dell'editor è quello di tirare fuori il meglio da un testo, non di stravolgerlo. Altrimenti tanto varrebbe scriverselo, risparmiando un sacco di tempo e fatica.
    Ti lascio un link, magari può essere utile per sapere cosa faccia un editor:
    https://cosedalibri.wordpress.com/2015/10/10/tu-vuoi-fare-leditor-no-la-prima-regola-e-la-grazia/

    E comunque gli scrittori farebbero bene a riflettere sul fatto che i propri scritti siano oggetto di così pesanti "attenzioni" :)

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    1. Ti sei piegato al sistema, eh?
      La verità è nel mezzo, come sempre. In questo caso, l'oggetto è un romanzo importante, frutto anni di lavoro, testimonianza diretta di un'esperienza di guerra. Ovvio che lo stravolgimento faccia male, e la sua è stata la scelta più giusta (IMHO).

      È un discorso lungo e complicato (mi viene in mente Gordon Lish e Carver, ma questo caso lo approfondirò in seguito). Io mi chiedo solo qual è il limite, quando il libro smette di essere tuo. Io, per esempio, non accetterei neanche un cambio di virgole.

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    2. Non mi sono piegato al sistema, ma ho abbastanza lucidità per capire dove qualcuno fa un lavoro migliore del mio.

      Per esempio: ho scritto un romanzo e l'ho fatto valutare. Loro hanno fatto le loro considerazioni e ne hanno tratto certe conclusioni (che mi hanno fatto incazzare). A quel punto, però, il romanzo l'ho riscritto io, per metà, con l'obbiettivo di non rendere possibili interpretazioni fuorvianti. L'errore era mio: se chi legge non capisce, il problema è di chi scrive. Riscrivere tutto, a ogni modo, è sempre scorretto e senza senso: nella migliore delle ipotesi l'editor ha manie di grandezza, nella peggiore c'è una manovra "dietrologica" per appropriarsi del nome di uno scrittore.

      Altro esempio: sono un genio (!?) e scrivo l'equivalente del Finnegans. O dell'Horcynus. Allora no: non accetto il cambiamento di una virgola, a meno che l'editor non mi dimostri di aver capito la meccanica del testo almeno quanto me.

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