New York come un ricordo che non mi appartiene

Come sorpresa, non era male. Attraverso la bruma, era così stupefacente quello che si scopriva all’improvviso che noi all’inizio rifiutammo di crederci e poi comunque quando fummo in pieno davanti alle cose, ognuno dei galeotti che eravamo s’è messo proprio a ridere, vedendo quello, dritto davanti a noi...

Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente dritta. New York è una città in piedi. Ne avevamo già viste noi di città, sicuro, e anche belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella, l’americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente stravaccata, rigida da far paura.
(Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline)

Per riuscire a giudicare un argomento in modo razionale bisogna affrontarlo con distacco, allontanarsi quel poco che basta per non rischiare di essere emotivamente coinvolti. Questa è la Giusta Prospettiva. Il fatto è che mi sembrava così naturale esserci, e adesso che sono passati alcuni giorni ho l’impressione che non sia mai accaduto. Avevo delle convinzioni prima di partire a cui non credo più, eppure ho avuto diverse conferme a cose che non sapevo neanche di volere. Mi piacerebbe dire di essere cambiata ma non credo sia così, allo stesso tempo penso che New York si sia presa un po’ di me. Sicuramente io ho cercato di confondermi in ogni parte di lei.

Fuori dal contesto in cui è stata scritta, nella citazione di Céline riconosco la mia prima impressione. Così grande, così piena,  «da far paura». E corre, corre veloce. Io c’ero in mezzo e non riuscivo ad afferrarla. Ma mi sentivo bene, al posto giusto, se questo vuol dire qualcosa. Come se tutto fosse lì quasi solo per me. La contraddizione e la meraviglia mi hanno colta come un’illuminazione: New York è di tutti proprio perché non si lascia prendere da nessuno. Incoerente, mai uguale a se stessa. Fluida, sfuggente. Neanche la struttura è stabile, perché la città si rinnova ogni giorno. New York la vedi per la prima volta e ti rendi conto che c’è sempre stata, da qualche parte, nella tua mente, come un ricordo preso in prestito da una vita che non ti appartiene.

Io avevo un piccolo appartamento al secondo piano di un palazzo sulla 9th street, nell’East village, una zona d’ombra rispetto alle arroganti vetrine dell’Upper East Side; ancora per poco, finché la riqualificazione e le leggi del mercato non trasformeranno il potenziale in residenziale. Era quello che volevo, vivere i miei giorni americani a riflettori spenti, anche se me ne sono resa conto soltanto dopo aver lasciato la città patinata per andare a scoprire la verità dei quartieri di periferia. Spalancare gli occhi di fronte ai cartelloni di Times Square, alzare lo sguardo alla maestosità dell’Empire State Building fa parte del gioco, ed è un gioco bellissimo perché tutto sembra incredibile. Ma New York non è Manhattan, tanto quanto Manhattan non è la Fifth avenue. New York attraversa il ponte e si perde nei mattoni rossi di Brooklyn Heights, sulla spiaggia di Coney Island, nelle traverse del Queens. A Williamsburg, a DUMBO, in ogni latinoamericano che vive nel Bronx. New York, per me, ha il sapore del soul food dei self service di Harlem e la voce degli afroamericani che cantano in nome di Jesus. È in questo divenire di odori, suoni e colori che ognuno può farsi spazio e trovare il suo angolo di mondo, nella città.
Che senso ha trovarsi nella città delle meraviglie e vagare per un quartiere popolare, mezzo abbandonato e ormai senza vita? È davvero una ricerca di autenticità o si tratta piuttosto di un mio bisogno di rassicurazione? [...] io, da turista di lungo corso odio i turisti occasionali — specialmente quelli che parlano la mia lingua, sembrano non desiderare altro che acquisti e fotografie, spendono tre giorni a New York prima di ripartire per il Grand Canyon o le cascare del Niagara — forse perché mi ricordano che anch'io sono di passaggio, anch’io sono venuto qui soltanto per collezionare cartoline. Così spesso il mio percorso è una fuga dalle masse che affollano i negozi, i ristoranti, i musei, i traghetti, le terrazze panoramiche: preferisco perdermi a Chinatown o fare mezz’ora di treno per raggiungere Coney Island d’inverno, dove so che tra i cartelli in cinese o sulla spiaggia deserta sarò estraneo a tutto e sarò solo. Negli angoli desolati mi sembra di trovare quello che sto cercando qui. 
(New York è una finestra senza tende, Paolo Cognetti)

Cosa cerchiamo tutti? Una possibilità, un’occasione. Diventare nessuno, estranei anche a noi stessi; lontani dal passato, liberi da ogni peso, anche dalle persone che amiamo, perché loro malgrado rispecchiano tutto quello che siamo. E poi partire da zero e inventarci di nuovo. Imparare a conoscerci come se fossimo qualcuno che si è incontrato per la prima volta. Anche solo pensare che sia possibile è una sensazione che ti riempie il cuore. E non so perché succede a New York, perché è successo a me, proprio a New York. Forse perché mi è apparsa così grande da riuscire a contenere il mondo intero. E se tutti, perché non me? Forse è solo che mi ha abbagliata con le sue mille luci. Forse, New York stessa è un’illusione.
Che c’è dunque fra noi? Come tenere il conto di lustri o secoli fra noi?
Qualunque cosa sia, non serve a nulla – non serve la distanza, e non il luogo.
Anch’io ho vissuto, Brooklyn dalle ampie colline fu mia,
Anch’io ho camminato per le vie di Manhattan e mi sono tuffato nelle acque lì intorno;
Anch’io ho sentito strane domande inaspettate agitarsi dentro di me,
Di giorno, fra la folla, a volte calavano su di me,
Di sera tardi, al mio rientro a casa, o quando ero steso sul letto, calavano su di me.
Anch’io ero stato colpito da questa massa sempre allo stato fluido,
Anch’io avevo ricevuto un'identità dal mio corpo,
Ciò che ero, sapevo che dipendeva dal mio corpo, e ciò che sarei stato, sapevo che sarebbe dipeso dal mio corpo.
(tratto da Crossing Brooklyn Ferry di Walt Whitman)

Avevo un quaderno e una penna per tenere ogni dettaglio ma non ho scritto nulla: mi sembrava di mettermi in disparte a raccontare una storia invece di viverla. Se mi fossi guardata da lontano avrei usato parole più adeguate, riferimenti precisi. Avrei ricordato quei giorni nella giusta prospettiva e non ne avevo alcuna intenzione.



***
Libri citati
Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline. Corbaccio, 2011. Traduzione di Ernesto Ferrero.
New York è una finestra senza tende, Paolo Cognetti. Edizioni Laterza, 2010.
Foglie d'erba, Walt Whitman. Einaudi, 2011. Traduzione di Enzo Giachino.

Nessun appunto, ma qualche scatto che trovate qui.

Commenti

  1. Un bell'articolo! La descrizione di Celine è magnifica, non la ricordavo (può essere uno stimolo a rileggere il "Viaggio"). Anche a me capita di non riuscire a scrivere nulla durante un viaggio. Me lo propongo sempre e sempre torno senza aver scritto una riga. Forse è giusto che sia così: forse Durante è giusto vivere; Dopo è il momento per riflettere su quello che ci è rimasto.

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    1. Sì, può essere. Leggo di persone che appuntano giorno per il giorno il loro viaggio, e mi piace. Forse può servire a non dimenticare niente, però io non ci riesco; è come essere a un concerto e guardarlo attraverso la videocamera. Oppure è una cosa che si può fare nei ritagli di tempo, magari la sera. Ma io ero così stanca, dopo un giorno intero vissuto fuori, che anche solo pensare di prendere la penna in mano mi sembrava una fatica assurda.

      Raccolgo "cose", questo sì: oltre alle foto, scontrini, biglietti della metro, ticket di non so cosa presi non so dove. Una sorta di "mappa dei luoghi" ce l'ho anch'io.

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  2. Quasi mi hai fatto commuovere, che bravissima descrittrice di sensazioni sei! Mi sembrava di essere lì con te ad addentare la Grande Mela mentre leggevo. (Tra l'altro quanto bella è la descrizione di Celine? Devo leggerlo prima o poi il suo Viaggio).
    Ho seguito i tuoi percorsi fotografici su instagram e ho apprezzato molto, moltissimo. Ogni volta un trasferimento di entusiasmo!
    Serve dire che New York è uno dei sogni della vita?
    A volte dico al mio ragazzo: "Sposiamoci, così poi andiamo a New York!" (che romantica eh?).
    Grazie di avermi/ci resa/i partecipe Mary.

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    1. Non mi sembra così assurdo, sai? Perché sono più o meno gli stessi progetti che avevo io. Poi, diverse non-coincidenze, mi hanno costretto a rimandare. Questo viaggio è stato, tra le altre cose, una sorta di "promessa mantenuta".

      Felice di averti/vi con me :)

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  3. New York non fa parte del mio immaginario; però ti leggo da (sedicente) scrittore e dico: wow!

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    1. Promemoria: "i libri ambientati a New York su Michele non fanno presa". A saperlo prima!

      Grazie ;)

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  4. New York come l'America non mi entusiasmano un granché, essendo eurocentrica come i primi conquistatori. Ci andrò, lo spero, per capire certe cose.
    Il medesimo proposito di appuntare qualche dettaglio e impressione su un viaggio in Sicilia si è rivelato un fallimento: le aspettative non hanno coinciso con la realtà dei viaggi.

    Bel racconto, American Girl.

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    1. Io temevo che le aspettative non corrispondessero alla realtà, anche perché succede quasi sempre no? Nella nostra mente, tutto quello che non abbiamo ancora visto/incontrato/ottenuto è sempre meraviglioso. L'immaginazione è una lama a doppio taglio.

      Grazie Marina.

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