La letteratura «popolare»: quando leggibile diventa pericoloso

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Il 17 maggio scorso, il portale Leggo riportava un'intervista di Gianrico Carofiglio dal titolo: "Scrittori, meno ego e più libri leggibili". Le dichiarazioni di Carofiglio sono state pubblicate alla vigilia dell'inaugurazione del Salone del libro di Torino, la fiera nella quale lo scrittore presentava il suo ultimo romanzo, La regola dell'equilibrio. Alla domanda di Valeria Arnaldi su cosa significhi essere uno scrittore oggi, in un Paese dove si legge sempre meno e si pubblica sempre di più, Carofiglio risponde: «Si comprano meno libri, ma c'è tanta gente che non si può permettere di acquistarli e frequenta le biblioteche. Credo però ci sia un problema di piacere della lettura. Non dico che la scrittura debba essere un allegro gioco di intrattenimento, però spesso gli autori non si preoccupano dei lettori e dei loro diritti». L'intervista prosegue seguendo la stessa flessione: «Diciamolo, alcuni libri di autori italiani sono illeggibili», oppure «Nella scrittura oscura ci sono una dimensione narcisistica e un sottile gioco di potere. E a me i giochi di potere non piacciono», e ancora «Meno un libro è comprensibile, meno si deve rendere conto al lettore». Ho estrapolato alcune frasi, ma il punto di vista di Carofiglio è intuitivo: la scrittura deve essere accessibile e comprensibile. «Sia chiaro: non sono un sostenitore della semplificazione a tutti i costi e dunque della banalizzazione. Ci sono cose difficili da dire che richiedono un linguaggio complesso e un necessario sforzo del lettore. Vorrei solo che non si creassero ostacoli dove non ci sono per puro esibizionismo letterario».

Se alcune di queste affermazioni mi trovano d'accordo, altre mi lasciano perplessa. A partire dal titolo dell'intervista, anche se non è diretta responsabilità dell'intervistato. Quali sono i libri leggibili? In base a cosa si distinguono dagli altri? Lo stesso Carofiglio concepisce l'uso di un linguaggio complesso a servizio di un scopo narrativo. Dove risiede la difficoltà da bandire? E quando lo sforzo ammesso diventa inammissibile? Sono argomentazioni che partono da buoni propositi ma si avviano per sentieri pericolosi. Il rischio è quello di creare una propaganda a favore della letteratura popolare, intesa nella sua accezione più commerciale, che pone il lettore in una condizione di fruizione passiva. Inevitabile, il gioco al ribasso: alla fine lo scrittore più bravo sarà quello più leggibile, perché scrive per tutti. Come se un insegnante decidesse di adeguare i programmi al rendimento medio della sua classe. Chi ne trarrebbe maggior vantaggio? E quello, sarebbe davvero un bravo insegnante?

Questo è un concetto che spiega meglio Julio Cortázar in Alcuni aspetti del racconto, uno dei due saggi pubblicati in appendice a Bestiario, la prima raccolta di racconti dello scrittore argentino. È un testo che riporta una conferenza tenuta da Cortázar a La Habana e pubblicata su "Casa del las Americás" tra il 1962 e il 1963. È un discorso che merita una lettura completa e che non mancherò di richiamare in futuro perché pieno di spunti, tutti importanti. A noi, però, interessa il finale. Cortázar racconta di una serata passata tra scrittori e alcuni contadini. Qualcuno lesse un racconto basato sulla guerra d'indipendenza argentina scritto «con voluta semplicità» affinché tutti i presenti potessero recepirlo. Conclusa la lettura, il pubblico rispose con qualche tiepido consenso ma era evidente che quella storia non riuscì a toccarli nel profondo. Un altro scrittore lesse La zampa della scimmia dell'autore inglese W.W. Jacobs. Cortázar ricorda «l'interesse, l'emozione, lo spavento e, infine, l'entusiasmo», che furono straordinari. Ricorda che per tutta la notte quei gauchos analfabeti andarono avanti a parlare del racconto e di tutte le suggestioni che aveva destato in loro. Continua, dicendo di aver visto l'emozione che è in grado di suscitare una rappresentazione di Amleto nella gente comune, che probabilmente non riesce a capire proprio tutto, non tutto quello che potrebbe arrivare a comprendere una persona che conta su un bagaglio culturale più articolato, ma abbastanza da subirne il fascino. Insiste, dicendo che il popolo legge «a diversi livelli, ma giungendo un po' ognuno». E conclude:
«[...] l'interesse appassionato che risvegliano molti racconti e romanzi per nulla semplici né accessibili, dovrebbe far sospettare ai sostenitori dell'arte cosiddetta «popolare» che il loro concetto di popolo è parziale, ingiusto e in ultima analisi pericoloso. Non si fa nessun favore al popolo se gli si propone una letteratura che possa assimilare senza sforzo, passivamente, come chi va al cinema a vedere un film western. Quello che si deve fare è educarlo, e questo è, in prima fase, un compito pedagogico e non letterario».
La lettura è un esercizio di solitudine che richiede, tra le altre cose, concentrazione e impegno. Non è detto che lo sforzo sia lo stesso per tutti, e non è scontato che tutti ne beneficino allo stesso modo. Ma questo non vuol dire che sia un'attività per pochi, anzi. Il punto non è la scrittura più o meno semplice, più o meno complessa. La scrittura deve essere comunicativa, capace di creare un ponte che congiunga l'universo emotivo dello scrittore a quello del lettore. L'interesse, l'emozione, lo spavento e l'entusiasmo che le storie che leggiamo suscitano in noi ci rendono uguali, in modo diverso. Ci permettono di accedere allo stesso mondo e di parlare la stessa lingua. Questa è la strada da seguire, afferma Cortázar, affinché le barriere intellettuali vengano abbattute. Solo così gli uomini riusciranno a comunicare davvero, al di là di ogni differenza culturale.


Commenti

  1. Portare un discorso alle estreme conseguenze non potrà mai essere il giusto metodo per comprenderlo. Io sono d'accordo con Carofiglio.
    Credo che l'autore per prima cosa debba immaginare a quale lettore voglia rivolgersi: questo non deve necessariamente essere privo di cultura o di padronanza linguistica. Ciascuno si rivolge a chi preferisce, ma è necessario che la scrittura sia vista come dialogo.
    Come ben sai non sono assolutamente dalla parte della lettura come intrattenimento (avevo anche scritto un post a riguardo), è giusto che ci sia uno sforzo anche da parte del lettore, ma ciò non significa dover tentare di dare un senso a qualcosa che invece non ne ha, o ne ha solo per se stesso.
    Mi piace pensare all'autore che percorre un cammino, lasciando disseminati indizi e segni che il lettore dovrà poi cogliere: credo che sia questo il significato di leggibile.

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    1. Siamo d'accordo, tant'è che ho parlato di un ponte che è un po' l'immagine di un dialogo. E invece sono del tutto favorevole al concetto d'intrattenimento, perché la lettura deve essere soprattutto quello. L'intrattenimento può essere anche educativo, o magari no, l'importante è essere consapevoli di quello che si è scelto di leggere.

      Il senso che non c'è, e la scrittura virtuosa fine a se stessa, sono alcuni dei maggiori problemi - come afferma anche Carofiglio - italiani, ma non solo. E su questo non si può che annuire. Parlando di Carver e della formula della buona scrittura ci si riferiva proprio a questo: eliminare ogni sorta di artificio per evitare che lo stile diventi pura esibizione.

      Allo stesso tempo, però, mi sono resa conto (sulla mia pelle) che esistono diversi livelli di comprensione e che un libro difficile, letto in età diverse o in condizioni differenti, può mostrarti nuove prospettive. L'ho capito con Wallace, ultimamente, col quale la prima volta ho provato "emozione-spavento-entusiasmo" senza capire bene il perché. Poi ho approfondito, e ho collegato e assimilato, elaborato e interiorizzato. Vuol dire che l'ho compreso di più? Può essere, ma è stato proprio quel primo sforzo, la prima emozione, che mi ha spinto ad andare oltre.

      Uno scrittore deve scrivere tenendo conto del lettore, certo, ma non deve scrivere per lui, altrimenti la scrittura diventa un monologo al contrario. "Io scrivo quello che può arrivarti meglio, dico le cose che vuoi sentirti dire, le cose che tutti vorrebbero sentirsi dire".
      In quel caso la letteratura c'entra poco. Ovvio che sto estremizzando, perché la verità sta nel mezzo. Occhio però a non cadere, né in un senso, né nell'altro.

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    2. Eh sì, io infatti ho abbandonato questo genere di riflessioni perché mi rendo conto che vale tutto e il contrario di tutto, quindi non mi creo schemi mentali. Non dico che l'autore debba scrivere ciò che il lettore si aspetta o vuole sentirsi dire - anche perché in questo caso la lettura sarebbe inutile - ma che debba immaginarsi una tipologia di lettore a cui rivolgersi (anche per stupirlo), per sapere cosa può dare per scontato e cosa no, soprattutto nella misura del racconto.
      Ad esempio, se faccio riferimenti a Hegel, posso dare per scontato che un buon 70% dei miei lettori capisca senza bisogno che ripeta la lezioncina? E il restante 30% può comunque farsi un'idea di quello che non dico? È una cosa che si fa anche nella comunicazione di tutti i giorni, credo.
      Ma se dico che mi sento come una salamandra lasciata a riposare nel frigorifero, siamo sicuri che il lettore possa immaginare questa sensazione, oppure piuttosto penserà (probabilmente a ragione) che lo stia prendendo in giro?
      In molta della narrativa italiana si trova questo inutile livello di complicazione che non fa riferimento alla cultura personale o alla conoscenza di un linguaggio forbito, quanto all'uso di immagini difficilmente comprensibili perché poco pertinenti all'esperienza umana.

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    3. In effetti ci sarebbe anche da riflettere sul perché questo fenomeno (pare) sia principalmente nostrano. Perché tendiamo a imbambolare l'interlocutore?

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    4. Temo che siano residui di una tradizione poetica che si è ormai esaurita ma che qualcuno cerca di riportare a galla sotto queste forme ibride. Purtroppo - dico purtroppo perché so che è un mio limite - non ho mai amato la poesia se non per qualche eccezione.

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  2. L'aneddoto mi ha fatto ricordare la concezione (alquanto moralista, indubbiamente) dei livelli di lettura immaginati da Manzoni per i Promessi Sposi: da un lato il lettore medio, che sarebbe stato dilettato soltanto dalle peripezie di Renzo e Lucia, dall'altro quello colto dell'alta borghesia, che avrebbe dovuto trarne il messaggio etico più profondo. Indubbiamente è una visione classista della letteratura che è auspicabile eliminare, riducendo sempre più il divario fra i due poli e, sono d'accordo, non giocando a ribasso, ma con una progressiva educazione.
    Visto che hai richiamato l'insegnamento, mi duole constatare, al termine del mio percorso di abilitazione, che è un appiattimento sul livello non medio, ma più basso della classe quello cui si vuole giungere oggi, riducendo sempre più i contenuti che richiedono maggiore sforzo in favore dell'allettante (vedi la proposta di rimuovere le "versioni" in fabore di un saggio di cultura antica).
    Mi sono riallacciata a questo esempio da te portato per ricondurre il tutto alla riflessione generale: purtroppo, per citare Montale alla cerimonia del Nobel, "le arti si stanno democratizzando nel senso deteriore della parola", si propongono libri scadenti esattamente come si abbassa il livello della preparazione richiesta allo studente, e questo avviene in reazione a quella diffusa celebrazione dell'intellettualismo e della compiacenza letteraria e culturale che credo Carofiglio intendesse stigmatizzare. Troppa enfasi su questo atteggiamento compiacente ha probabilmente generato il rifiuto dell'elevato e dell'altisoante in toto, facendoci dimenticare che ogni situazione ha i propri mezzi di comunicazione.
    Grazie per questo interessante spunto di riflessione e complimenti per la leggerezza con cui hai saputo presentare una questione tanto ponderosa.

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    1. Grazie a te. Non voglio correre il rischio di passare per quella che fa della scrittura incomprensibile uno stendardo di qualità, perché non sarebbe vero. Alcuni libri sono davvero inaccessibili, perché scritti per soddisfare un bisogno di autocompiacimento.
      Io mi sento molto più dalla parte dei contadini di Cortazar, perché mi è capitato diverse volte di restare a bocca aperta leggendo alcuni libri. Uno stupore quasi infantile. E non ci ho capito niente, probabilmente, o comunque molto poco, sicuramente non tutto, ma è stato emozionante lo stesso, e utile, e sono cresciuta, come lettrice, anche grazie a quelle cose che non ho capito, perché mi hanno spinto ad approfondire, a cercare "un senso in più" che prima non avrei neanche considerato.

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  3. Io mi trovo d'accordo con Carofiglio soprattutto quando afferma: <> E sostituirei la parola autori alla parola editori, perché spesso è proprio l'autore del testo che si spinge verso un linguaggio più complesso, forse meno "digeribile" dalla maggioranza dei lettori, ma che da un effetto di maggiore letterarietà. Peccato che nella maggior parte dei casi la complessità non è determinata dalla profondità del tema trattato, quanto da una serie di metafore e similitudini prive di senso. Ho letto nei commenti precedenti degli esempi di quello che sto dicendo e ho apprezzato l'esempio della "salamandra nel frigorifero" fatto da Saeglòpur: di esempi del genere se ne potrebbero riportare a decine.
    Io credo che questa ricerca della letterarietà a discapito della chiarezza - più che della semplicità - sia soltanto l'ennesimo esempio di ciò che sta caratterizzando il nostro tempo: l'inseguimento l'apparenza e l'abbandono del contenuto. E' il tempo in cui la forma è più importante della sostanza.

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    1. Il problema è proprio questo. Tutti diciamo la stessa cosa, e cioè: un linguaggio complesso fine a se stesso non conclude niente e, anzi, penalizza la narrazione. Ma nell'articolo si parla (o almeno io avevo intenzione di parlare) anche di contenuti; di un libro, un racconto, un brano, complesso perché profondo, strutturato, affinché il lettore, scegliendolo, acquisisca un metro di giudizio, un termine di paragone per comparare un libro all'altro. Io leggo soprattutto narrativa americana contemporanea, e lì di virtuosismi letterari non ce ne sono poi molti. "Scrivi semplice", quello che diceva Carver (di cui abbiamo parlato qualche giorno fa) è una delle lezioni di scrittura che ogni autore dovrebbe tenere a mente. Ma semplice, secondo me, non è sinonimo di facile (parlando di scrittura) ma fa più rima con chiaro, preciso. E questo, che ha detto anche Carofiglio, cioè usare "parole giuste", mi trova pienamente d'accordo.

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  4. La frase di Carofiglio a cui mi riferisco è: Ci sono alcuni editori secondo cui l'incomprensibilità di un testo è sinonimo di letterarietà.Meno un libro è comprensibile, meno si deve rendere conto al lettore.

    (Prima non aveva funzionato il copia e incolla.)

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    1. Mi aggancio a questa frase per dire che gli editori fanno storia a sé. Io mi riferisco agli scrittori, che non dovrebbero mai scrivere per il mercato ma per i lettori (non solo per loro, ma anche per loro). Gli editor si muovono in base alle dinamiche commerciali e loro sì, purtroppo, che devono far riferimento all'accessibile e al leggibile, perché loro (gli editor) rincorrono consumatori che non sono necessariamente lettori consapevoli.

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  5. Anche io penso che Carofiglio abbia ragione. Poi, perdendo tempo su fb, leggo questo:

    "Un editore letterario che non abbia al centro del suo progetto un “canone fluido” del contemporaneo, e che produca soltanto incessanti, inutili novità per contribuire, secondo i dettami della modernizzazione, all’economia del suo lavoro, ha... poco senso. Ma poiché ogni canone letterario presuppone un rapporto vivo col passato, bisogna rendersi conto che questa è un’attività in controtendenza rispetto allo spirito del tempo dominante. Occorrerebbe ricostruire i frammenti di una società letteraria, addirittura un nuovo snobismo letterario".
    G. Russo, direttore editoriale Neri Pozza

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    1. Rispondo a te, Michele, ma approfitto per fare un discorso generale.
      La cosa più giusta, a proposito di tutto questo, l'ha detta la mia amica Sæglópur su un cima, ed è "Portare un discorso alle estreme conseguenze non potrà mai essere il giusto modo per comprenderlo". Vero, verissimo. La questione può essere risolta in due minuti, dicendo che entrambi hanno ragione (ché è la verità) e chiuderla lì. Ma questo eliminerebbe ogni sorta di confronto che è, invece, lo scopo principale che mi spinge a scrivere articoli del genere.

      Ora, assodata che sia una verità più o meno approssimativa, c'è da tenere conto di un'altra cosa, che è la differenza di prospettiva dei due: Julio Cortázar è uno scrittore argentino e tiene questo discorso nel 1962. Carofiglio è uno scrittore italiano che deve "fare i conti" con il panorama editoriale di oggi. Secondo me, anche se ogni tempo ha le sue difficoltà, Carofiglio se la passa peggio di Cortázar perché la concorrenza è al ribasso. Ecco perché, nonostante la verità stia nel mezzo, io sono d'accordo con i concetti espressi da Julio. Che poi quella di Cortázar sia una visione troppo ottimistica (quasi utopica, no?) è vero, ma quello era un discorso al pubblico, e i discorsi vengono sempre caricati d'enfasi un po' più del necessario.

      Sulla frase che hai riportato sai già cosa penso: è l'altro estremo, e non va bene. Perché quello che intendeva Cortázar è il senso di una buona letteratura (ed è qui che si crea il malinteso secondo me, perché quelli di cui parla Carofiglio - quelli che scrivono libri illeggibili e autoreferenziali - non sono contemplati nella fattispecie) che è il contrario di una società letteraria. Riducendola in soldoni Cortázar dice: "Date fiducia al popolo, perché il popolo non è così stupido e sa distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Non privatelo della "bellezza". Il post che hai riportato tu dice: "Il popolo è diventato stupido. Una massa informe di automi. Dobbiamo rieducarlo alla lettura". Sono due visioni completamente diverse.

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    2. Sono d'accordo, lo sai. A me invece fa proprio paura un direttore editoriale che teorizza un "nuovo snobismo letterario": mi sembra il primo passo per la razza ariana della repubblica delle lettere. E mi fermo qui.

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    3. Il discorso del mio Julio si riallaccia - non so quanto volutamente - all'estetica del sublime del trattato Perì Hypsous dello Pseudo Longino. Egli sosteneva che tutti gli spettatori (qui si parlava di retorica) fossero in grado di comprenderlo, per un qualcosa di attinente alla sfera umana, non ben definibile.
      E sono d'accordo anche con questo, nel senso che tutti restano a bocca aperta quando sentono un'aria della Madama Butterfly o guardano un dipinto di Van Gogh. C'è un qualcosa di meraviglioso che tutti - dall'intellettuale al contadino - riconoscono.

      Hai accennato anche alla semplicità, che però deve essere un alto raggiungimento e non un punto di partenza; e allora penso al Less is more, che è principio tipico americano e - almeno in alcuni contesti - va benissimo.
      Io penso che l'essere "complicati" (che poi è tutto relativo, non tutti percepiscono le difficoltà allo stesso modo) abbia senso laddove non si possa fare altrimenti. Ad esempio, se voglio esprimere il concetto di Sehnsucht o di Saudade non posso tradurre la parola in italiano, sapendo che cambierebbe di significato; se parlo di sostanza, e mi riferisco necessariamente a quella kantiana, devo dare per scontato che il mio lettore lo capisca (e mal che vada si metterà una nota a piè di pagina o sarà il lettore a cercarselo, ma si tratta comunque di dati oggettivi).
      La questione delle immagini poetiche (o pseudo tali) credo sia più complicata, proprio perché soggettiva.

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    4. Quello che hai detto tu. (Inizio ad accusare i primi segni di cedimento).

      ;)

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  6. Penso che siano due posizioni sovrapponibili solo in parte, ovvero solo nella misura in cui lo scrittore pedagogo si pone la questione se con il suo linguaggio vuole destare meraviglia (o essere criptico, direbbero altri) oppure essere semplice. I vangeli, per dire, sono scritti con un linguaggio semplice, mentre gli scritti misterici o un certo esoterismo barocco decisamente no. Ma sinceramente credo che pochi scrittori abbiano qualcosa da insegnare e non sono sicuro che sia un atteggiamento auspicabile nella letteratura commerciale (senza nessuna accezione dispregiativa). Purtroppo non conosco Carofiglio, ma penso che quelli che Wikipedia etichetta "gialli giudiziari" difficilmente appartengano alla categoria. Manzoni forse sì, ma il suo romanzo è in effetti anche piuttosto divertente (almeno io l'ho trovato tale).

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    1. Anche se non ho ben capito il punto del tuo commento, inizio a pensare di non aver espresso il mio pensiero in modo chiaro. Io non "patteggio" per l'una o per l'altra posizione; non avrebbe senso perché, appunto, non sono sovrapponibili. Le dichiarazioni di Carofiglio mi sono servite per creare un ponte dal particolare al generale e ho usato il saggio di Julio per dare sostegno alla mia tesi, che è: corriamo il rischio di leggere libri sempre più leggibili (?), semplici (?), comunque vuoti. Questo perché chi decide quali libri mettere sul mercato (e non sono gli scrittori a farlo) ci considera esseri poco inclini alla riflessione. Pare che non abbiamo pazienza, o voglia, o tempo di applicarci. Io dico: questo non è vero. Lasciate a noi il diritto di scegliere, mettendoci a disposizione diverse gradazioni di una stessa letteratura. La possibilità di scelta è importante. Poi ognuno opta per quello che preferisce. Io non sono per la lettura impegnata a tutti i costi, e sono per le parole giuste più che per quelle semplici (e questo lo suggerisce anche Carofiglio nell'intervista).

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  7. Negli USA la letteratura anche più impegnativa è accessibile a tutti sin dagli anni 80, più o meno.
    Ci sono i bestsellers di King, che sono puro intrattenimento, ma sono diventati bestsellers anche i romanzi di Ellis (Bret Easton) che di intrattenimento non hanno moltissimo.
    Distinguere in modo netto le due cose è tipicamente italiano, a mio parere si possono fare romanzi semplici, leggibili dalle masse, che però hanno molto da dire sotto la loro patina di leggerezza.

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    1. E questa sarebbe la giusta via di mezzo che mette tutti d'accordo :)

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