Le parole sono tutto quello che abbiamo | Raymond Carver

Mi piace quando nei racconti c'è un senso di minaccia. Credo che un po' di minaccia sia una cosa che sta bene, in un racconto. Tanto per cominciare, fa bene alla circolazione. Ci deve essere della tensione, il senso che qualcosa sta per accadere, che certe cose si sono messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole vengono concretamente collegate per formare l'azione visibile della storia. Ma creano tensione anche le cose che vengono lasciate fuori, che sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a volte rotta e agitata) superficie del racconto. 
V.S. Pritchett definisce il racconto come «qualcosa intravisto con la coda dell'occhio, di sfuggita». Attenzione a quell'«intravisto». Prima c'è qualcosa di «intravisto». Poi quel qualcosa viene dotato di vita, trasformato in qualcos'altro che illumina l'attimo fuggente e potrebbe avere, se abbiamo fortuna - sempre questa parola — conseguenze ancor più significative e durature. Il compito dello scrittore di racconti è di investire quel qualcosa appena intravisto con tutto ciò che è in suo potere. Egli deve metterci tutta l'intelligenza e tutta l'abilità letteraria che possiede (il suo talento, insomma), tutto il suo senso delle proporzioni e della forma: dell'essenza reale delle cose esterne e del modo in cui lui — e nessun altro — le vede. E tutto questo si ottiene attraverso l'uso di un linguaggio chiaro e preciso, un linguaggio usato in modo da infondere vita a dettagli che illuminino il racconto al lettore. Perché i dettagli siano concreti e carichi di significato, è essenziale che il linguaggio sia dato in maniera quantomai accurata e precisa. Le parole possono essere precise anche al punto di apparire piatte, l'importante è che siano cariche di significato; se usate bene, possono toccare tutte le note.
(da Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. Einaudi, 2008. Trad. di Riccardo Duranti)


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