Cercasi Arturo Bandini disperatamente


A dispetto del proposito di non accavallare le letture, sto alternando lo studio delle Lezioni americane a una raccolta di racconti. La raccolta è Undici solitudini di Richard Yates. Ora, non so se sia l'influenza di Yates a farmi questo effetto, oppure è Calvino che col suo saggio mi rimanda ad autori e opere fuori dal comune, ma mi chiedo ancor più adesso che fine abbiano fatto gli scrittori. Quelli veri. Non dico che non ci siano autori degni di nota e ripongo sempre qualche speranza nelle giovani reclute. Con questo articolo mi riferisco soprattutto ai veterani del settore, agli scrittori che fanno dello scrivere un mestiere, solo un mestiere. Mi riferisco alla tendenza di voler trascinare il successo di un libro con prodotti editoriali di dubbia qualità, ai romanzi che continuano in altri romanzi, alle riedizioni di lavori già pubblicati in precedenza, agli scrittori che coinvolgono i propri personaggi in un estratto per Pasqua o per Capodanno per cavalcare l'onda del successo quando il clamore è già sul bagnasciuga.

La prefazione di Undici solitudini è stata affidata a Paolo Cognetti. Lo incontro molto spesso lui, nei libri che leggo; ha scritto anche la presentazione di Ballando a notte fonda, una raccolta che consiglio soltanto a quelle persone che credo possano essere in grado di apprezzarne la densità. Andre Dubus compare anche in Undici solitudini; nella sezione biografica di Yates, infatti, c'è un riferimento a una conversazione avvenuta tra i due, nella quale il secondo confida al primo la sua più grande aspirazione: «Io non voglio soldi, voglio lettori». Mi ha commosso. Non sono incline ai buoni sentimenti, non mi piacciono le emozioni facili. Questa però è una frase sofferta, una rivelazione che ci coglie dopo che veniamo a conoscenza di alcuni dettagli della vita di Yates, della frustrazione dell'autore nata per aver scritto un capolavoro, Revolutionary Road, all'inizio della carriera, e di non essere riuscito più a superarlo. È questa consapevolezza che ha portato Yates all'autodistruzione; l'alcool e i dissidi familiari sono stati solo i sintomi di un malessere più profondo. Quel messaggio, nella sua semplicità, svela un desiderio così puro da risultare spiazzante: io scrivo per i lettori.

Tempo fa partecipai a un seminario nel quale, tra le altre cose, si parlò dello stipendio di uno scrittore medio; mentirei se vi rimandassi a cifre esatte ma si concluse che uno scrittore, a meno che non sia Stephen King o J. K. Rowling, con il ricavato della vendita di un romanzo sopravvive per poco tempo. Molto spesso, infatti, vediamo autori che intervallano la scrittura con il giornalismo, con lezioni all'università, con partecipazioni a eventi a tema; insomma, arrotondano come meglio possono. Niente di più giusto e lodevole. Questo però mi fa supporre che chi decide di scrivere lo fa soprattutto per passione. E allora, torno a ripetere: vale la pena accalappiarsi quattro spiccioli con questi mezzucci? Perché, voglio dire, non esistono lettori stupidi; esistono lettori distratti, lettori che si fanno prendere dalla curiosità, lettori fedeli, lettori che si lasciano trasportare dall'ammirazione per l'autore e decidono di comprare a prescindere. Lettori saltuari, meno accorti forse, ma mai stupidi.

Pensate per un attimo se Márquez avesse scritto un libro intitolato: I BUENDÍA RIPARTONO DA MACONDO, un ipotetico spin-off del più celebre Cent'anni di solitudine. Avrebbe venduto? Può essere. Avrebbe guadagnato nuovi lettori? Non credo. Avrebbe perso qualcosa? Secondo me sì. Avrebbe perso la stima di quelli che hanno sognato di Aureliano, di Arcadio, e di tutte le vicende della famiglia. Stessa cosa Yates, se avesse scritto: FRANK E IL PRIMO ANNO SENZA APRIL. Che senso avrebbe avuto? Però è questo che accade, sempre più spesso. Un libro ha un discreto successo? Facciamone il sequel, o il prequel, o ci buttiamo qualcosa nel mezzo e lo ricicliamo ad anno nuovo, che tutto fa brodo. No. Un libro si conclude, e così deve essere, all'ultima pagina; volerlo estendere, dilatare, riciclare è una mancanza di rispetto; una mancanza verso il lettore ma, soprattutto, verso la storia stessa. È svendere il proprio lavoro, mortificarlo. Questo mi fa riflettere: se tu per primo, scrittore, non riesci a dare valore al tuo talento, come posso farlo io?

In questi giorni mi è capitato di ripensare ad Arturo Bandini, al modo immaturo e appassionato di concepire la scrittura che John Fante ha saputo trasmettergli. Penso a passi come questo:
Mi incantai davanti alla vetrina di un negozio di pipe e ci rimasi un sacco di tempo, mentre il mondo intero spariva a eccezione di quella vetrina e delle pipe. Le fumai una per una, immaginando di essere un grande scrittore e di scendere da una grossa auto nera con un'elegante pipa di radica in bocca e in mano un bastone da passeggio, seguito dalla donna con la volpe argentata, visibilmente orgogliosa di me. Firmammo il registro dell'albergo, poi ordinammo un cocktail, ballammo un po', prendemmo un altro cocktail e io recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava meravigliosa perché ogni due minuti una fata mi fissava estasiata e io, il grande scrittore, ero costretto a farle un autografo sul menù, rendendo pazza di gelosia la mia compagna con la volpe argentata.

(...) Salve Dreiser, ehi Mencken, ciao a tutti, c'è un posto anche per me nel settore della B, B come Bandini, stringetevi un po', fate posto ad Arturo Bandini. Mi sedevo al tavolo e guardavo verso il punto in cui avrebbero messo il mio libro, proprio lì, vicino ad Arnold Bennett; niente di speciale quell'Arnold Bennett, ma ci sarei stato io a tenere alto l'onore delle B, io, il vecchio Arturo Bandini, uno della banda.
Mi piacerebbe che gli scrittori di oggi fossero anche po' così; che cercassero di conquistare il lettore prima del guadagno facile, che sognassero di scrivere più che sperare di vendere. Che ci fossero più Bandini e meno mercenari. E se questo vi è sembrato un articolo da buoni sentimenti, beh, che lo sia. Per una volta posso anche permettermelo.




Commenti

  1. Non posso che essere d'accordo con tutto quello che hai scritto (e non si tratta di adulazione...). Amo i libri dal finale aperto, che lasciano dubbi e non forniscono risposte, perché spetta al lettore fare il resto; un'eventuale seconda parte potrebbe sembrare una presa in giro. È anche vero che potrei capirlo, da un certo punto di vista: il libro è come un progetto, non può mai dirsi veramente compiuto... Ma se l'autore nutre dubbi sulla sua finitezza, teoricamente non dovrebbe darlo alle stampe (e qui si torna al discorso che facevi sulla libertà di scrittura, che dovrebbe essere ben distinta dal mestiere). Però c'è la voglia di condivisione, di avere riscontri e critiche... e capisco anche questo.
    Quante volte capita di pubblicare un post e subito dopo pentirsene? Immagino che per il libro sia tutto più amplificato.
    E allora non saprei... Alcuni titoli (e sappiamo a cosa mi riferisco!) mi sembrano mere trovate editoriali, ma se penso a un "Per Isabel" di Antonio Tabucchi (che tra l'altro viene da un cantiere di quindici anni e più), in cui compaiono personaggi già visti, ma sotto un'altra veste, come se Tabucchi avesse voluto dar loro una nuova vita... E visto che lui lo considerava come una creatura strana, mai compiuta, non l'ha mai pubblicato, per questo non credo si tratti di una trovata pubblicitaria.

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    1. Il fatto che Tabucchi abbia deciso di non pubblicare quel lavoro è segno di forte umiltà; il suo nome era già così importante che qualsiasi cosa avesse pubblicato avrebbe venduto sicuramente (certo, non conosciamo le motivazioni di questa decisione, magari voleva perfezionarlo per pubblicarlo in seguito), il fatto è che non ha pubblicato, e il "non fare" è sempre preferibile al "fare sbagliato".

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  2. Oggi il mondo dei libri assomiglia a una giungla...
    Sicuramente è bene che ci sia tanta scelta, perché il lettore ha diritto di scegliere.
    No, non credo che avrei apprezzato I BUENDÍA RIPARTONO DA MACONDO o FRANK E IL PRIMO ANNO SENZA APRIL.
    Sfruttare la popolarità di una storia significa anche snaturarla, mi hai ricordato che ho scritto un post sul mio blog che rimanda a quest'argomento. Riguarda "La vendetta veste Prada" di Lauren Weisberger, sequel del più noto "Il diavolo veste Prada". La sua uscita mi ha lasciato piuttosto sconcertata e ritengo una scelta non necessaria, davvero. Infatti, non credo proprio lo leggerò.

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    1. Ecco, sì, anche quello può essere un esempio di quel che dicevo. Diverso è il caso di libri in serie (mi viene in mente la saga di Harry Potter) perché lì in senso c'è. Anche nelle serie però, c'è la tendenza a stiracchiare la storia. Dipende. C'è da analizzare caso e caso.

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  3. Sono d'accordo con te. Solo scrivendo per passione si può dare una vita autentica ai personaggi e alla storia, scrivere per incamerare più soldi è un lavoro come gli altri per gli arrivisti e gli ingordi. Il fatto che i proventi di un libro non ti permettano di vivere di rendita è un beneficio e uno stimolo a scrivere per passione e a scrivere altri libri, che dovrebbero essere diversi dal precedente. Anche le serie, per come la vedo io, devono essere avventure diverse degli stessi personaggi (non avventure brutte copie delle precedenti) che possono avere un filo conduttore.

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    1. E poi c'è anche che, nel caso non raggiungessi il successo, sei stato comunque te stesso, e non hai nulla da rimproverarti.

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  4. Hera
    Io sono di questo avviso:
    Non esiste l'autore vero o autore falso, esiste solo lo stile di esso.
    Inoltre, esistono fenomeni editoriali e "fenomeni" editoriali.
    Il primo è effettivamente un vero fenomeno perchè il pubblico ha risposto bene acquistando non solo attraverso la pubblicità, ma anche attraverso il passaparola o leggendo recensioni positive .
    Il secondo ,invece, è un "fenomeno" passivo, dettato dalla moda del momento. A leggere questo tipo di libri sono anche i lettori occasionali . E hanno presa sul pubblico più per la curiosità di sapere cosa abbia scritto questo autore che per il vero interesse .
    Ciao

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    1. Sono stata volutamente provocatoria utilizzando il termine "verità".
      Però credo che ci sia chi, partendo dalla propria passione, perde un po' la bussola e, pur di comparire in libreria, si lancia in progetti che non hanno altro scopo che accaparrarsi clientela.

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  5. Sono un lettore distratto, ma mi sembra tu abbia saltato la distinzione fra "vendersi" e "svendersi". Ci sono autori che hanno fatto tutta una serie di scelte discutibili e sono autori importanti, cito a braccio: Baum, Doyle, Burroughs (Edgar Rice). Burroughs un giorno si stancò di vendere temperini porta a porta, acquistò alcune riviste pulp e si disse: "Posso fare di meglio!" E fece di meglio. Scrisse romanzi in serie e credo riuscisse a camparci. Perché scrivere, quando non te lo puoi permettere, è anche un lavoro. E un libro è anche un prodotto commerciale. Separare le due cose è davvero un discorso d'altri tempi, o uno che si può fare solo agli alti livelli.

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    1. Ho utilizzato il termine svendersi proprio per sottolineare la differenza, mi dispiace che non si sia capito. Ovvio che uno scrittore, detta semplice, deve pur mangiare; ovvio anche che, al di là dei soldi, c'è anche la voglia di confrontarsi con il pubblico, quindi sono favorevole anche progetti editoriali alternativi. Non mi piace "l'accalappio del lettore", non mi piace che si voglia guadagnare su idee riciclate. Se l'idea non c'è, meglio tacere.

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    2. Ho premesso che sono un lettore distratto, quindi partiamo dal presupposto che non abbia capito io.
      Se leggessi fantascienza di consiglierei un libro di Barry Malzberg, una specie di meta-romanzo che critica l'evoluzione del mercato di massa (fantascientifico) negli anni dai '50 ai '70, in cui inserisce una frase che mi ha colpito particolarmente: "che senso ha fare ricerca, se mi pagano allo stesso modo?" (Le riviste pagano ancora oggi i racconti tot centesimi a parola.) Uno che sa scrivere, partiamo da questo presupposto, può cadere nella tentazione di curare di meno un'opera e di andare incontro all'interesse volubile del pubblico, anziché attirarlo a sé. Se ci pensi, è lo stesso comportamento di quei rappresentanti politici che usano i sondaggi come strumento per inseguire il consenso, anziché fondare la propria azione su una base solida. Il problema è anche il pubblico, che è aumentato a dismisura e... beh, è cambiato e cambierà ancora. Il problema, con gli scrittori, è che gli editori grossi questo l'hanno già capito e sempre più spesso pubblicano secondo criteri che mirano proprio ad "accalappiare il lettore" - è per questo, esempio cretino, che è difficile (ma non impossibile) trovare un fantasy autoconclusivo nelle librerie, o uno che non rimandi ad altri due titoli di successo, per non parlare di epigoni - per non dire cloni. E lo scrittore? Beh, lo scrittore, il libero professionista, vede un'offerta di lavoro e ci si butta. Non dico sia bello, ma questa è la mia modesta impressione.
      Ora però mi eclisso perché sta diventando un papiro...

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    3. Mi piacciono i papiri, e mi piacciono ancor di più i confronti.
      Capisco il tuo punto di vista e la pensiamo uguale, ma guardiamo la cosa da due angolazioni diverse. L'editore vuole guadagnare, sì, ma lo scrittore potrebbe rifiutare se non si sente rappresentato da quel progetto? Non dico rinunciare al denaro "in nome dell'arte", sarebbe assurdo, ma fare delle scelte: questo sì, questo no, questo vediamo. Non voglio star qui a nominare casi e farti dei nomi a, gettando uno sguardo in libreria, te ne accorgi subito del pacchetto preconfezionato. Tu dici che non dovremmo dare allo scrittore nessuna responsabilità?
      Forse sono io che non riesco ad associare al 100% la creatività ai meccanismi di vendita ma se fossi uno scrittore preferirei reinventarmi e fare altre cose, diversificarmi, piuttosto che macchiare la mia scrittura (forse però sono ancora sulla scia dei buoni sentimenti!)

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    4. Secondo me la risposta è molto semplice e non comporta necessariamente i buoni sentimenti. :)
      Il fatto è che entrambi abbiamo degli standard di lettura che tagliano, o rendono difficile da digerire, tutto ciò che è preconfezionato e da riscaldare (ammetto che non è lo stesso col cibo, per quanto mi riguarda). Io, anzi, leggo spesso narrativa d'annata perché così posso scegliere i libri che, nel loro piccolo, hanno lasciato il segno anche a livello artistico. Con i titoli contemporanei non sempre so come comportarmi. Vado sulla fiducia. O seguo i consigli. Purtroppo non serve ignorare le tagline ("Come [libro di successo X, o magari una serie] che incontra [libro Y]"), perché, guardando alle letture degli ultimi mesi, l'efficacia è del 50% scarso: a volte queste porcherie le fanno anche a libri ottimi, proprio per venderli meglio nonostante così disorientino i lettori "qualificati".
      Quanto alla tua domanda, credo che lo scrittore potrebbe contrattare sulle condizioni (per esempio, autonomia artistica) o cercarsi un altro editore. Però la situazione è sbilanciata, a meno che tu non abbia un nome di un certo peso. Immagino, eh, perché non ho pubblicato nulla. Però una modestissima circostanza in cui un'opera era considerata pubblicabile solo perché soddisfaceva una data nicchia di mercato posso testimoniarla anch'io, nel mio piccolo. (Urge precisazione: era una proposta ridicola, per un testo di modesto valore letterario.)

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