Paradiso e inferno di Jón Kalman Stefánsson

La prima difficoltà  che incontro quando descrivo un libro è nella scelta dell'aggettivo. Bello e brutto sono i termini che più detesto perché sono i meno adatti a raccontare l'esperienza di lettura. Li uso anch'io, ma solo quando non riesco a trovare il vocabolo giusto nel pozzo delle infinite possibilità. E la vivo male. La vivo come una limitazione. Bello come? Bello perché? Cosa significa bello? E, soprattutto, in che cosa si distingue il bello dal bello? La fortuna ha voluto che in questo caso l'aggettivo mi sia stato suggerito dall'autore stesso. Questa volta non sbaglio. Paradiso e Inferno è un libro poetico.
Prendo ispirazione dalla poesia. Credo che la poesia sia la forma più profonda d'espressione e che racchiuda in sé molti elementi capaci di commuovere, più di  qualsiasi altra forma, a parte forse la musica. Io provo sempre ad applicare certe modalità nei miei romanzi. Il modo in cui la poesia può essere illogica, eppure avere comunque senso. Ma non lo faccio in modo conscio.
Da professore a bibliotecario, Jón Kalman Stefánsson esordisce come scrittore nel 1988, con una raccolta di poesie titolata Con il porto d'armi contro l'eternità. Seguiranno altri due volumi in versi, Dai reattori degli dei (1989) e Mi chiese cosa avrei portato con me su un'isola deserta (1993). La poesia plasma il suo stile così tanto che, anche passando al romanzo, la scrittura resta intrisa di romantica bellezza. Ogni periodo rappresenta un vero e proprio culto della parola. 

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I romanzi di Stefánsson io li leggo ad alta voce. Anzi no, li sussurro. Quel poco che basta affinché io, solo io, possa deliziarmi di cotanta sublimazione con almeno tre sensi. Il tatto, le dita che scivolano sulla copertina ruvida e spessa. La vista, le parole che si rincorrono l'una con l'altra. E l'udito, l'armonia piena del linguaggio. Paradiso e inferno è un libro di ambientazioni fascinose e abbacinanti. Non te l'aspetti che ci sia tutto l'amore del mondo nelle insenature proibitive dei fiordi islandesi. 

La prima parte è incantevole. Impareggiabile secondo me. E come potrebbe non esserlo? Ditemi se riuscite a immaginare qualcosa di più tragico di un uomo che muore di freddo su una barca, al largo, in un'improvvisa tempesta. Muore perché ha scordato la giacca cerata e il gelo arriva a tendergli pure le corde dell'anima. Niente di strano, se la dimenticanza non fosse dovuta a un libro, Il paradiso perduto di John Milton. L'uomo, Bárður, cercando di memorizzarne alcuni versi, si abbandona a tal punto che finisce per anteporre quelle parole alla sua stessa vita. Il dramma diventa poesia. E c'è una frase, "Nulla mi è delizia, tranne te", che compare più volte nel testo, straziante e magnifica, e ogni volta è una ferita scoperta che torna a bruciare.
Nulla mi è delizia, tranne te.
Nulla mi è delizia,
tranne te. 
Nulla
mi è delizia,

tranne te.
Sarà un Ragazzo, un amico di Bárður, a condurvi nella seconda parte; attraverserete insieme l'ostico scenario dell'Islanda per raggiungere il Villaggio e riconsegnare il libro al legittimo proprietario.
Le montagne rendono la quiete più profonda, ma possono anche far impazzire i venti che si incuneano indisturbati nel fiordo, venti polari gonfi di desideri omicidi, e tutto quello che non è stato assicurato a terra vola via e scompare. Legname, vanghe, carretti, tegole, tetti interi, stivali di piedi destri, pensieri, tiepide dichiarazioni d'amore. Il vento urla tra le montagne, lacera la superficie la mare, la salsedine si deposita sulle case e filtra nei seminterrati. Quando il vento si placa e possiamo mettere il naso fuori senza morire, le strade sono coperte di alghe, come se il mare ci avesse starnutito addosso. Ma arriva sempre la calma, dopo, le piume degli angeli scendono di nuovo a terra volteggiando, noi torniamo sulla riva ad ascoltare le piccole onde che si rompono con un lieve sciabordio, l'agitazione si acquieta, il sangue rallenta nelle vene, il mare diventa un seducente giaciglio su cui desideriamo riposare.
Ho vissuto meno queste vicende, lo ammetto. Forse perché, come Bárður, ho il vizio di perdermi nella lettura e di riemergere con un ritmo tutto mio che non sempre coincide col testo. E poi la parola morte, compare troppe volte. Io devo difendermi in qualche modo. 


Ora, il mio consiglio è: leggete StefánssonVi ho parlato di un altro romanzo tempo fa, Luce d'estate, ed è subito notte. Ecco, anche quello. Sono romanzi diversi, ma basati su una struttura narrativa molto simile. C'è un villaggio che vuole raccontarsi. Ci sono persone che hanno vissuto e vogliono dar voce ai propri ricordi. Luce d'estate è frenetico, più appassionato. Vivo. Paradiso e inferno è gelido, raffinato. È poetico. Scegliete quello a cui vi sentite più affini. Quello che, a impressione, vi rispecchia di più. Almeno uno, però. Dovete promettermelo.
C'è ben poco di noi, oggi, che evoca la luce. Siamo molto più vicini alle tenebre, siamo quasi tenebra, l'unica cosa che ci resta sono i ricordi e poi la speranza che si è però affievolita, continua a poco a poco a estinguersi, e presto somiglierà a una stella fredda, un lugubre blocco di roccia. Eppure un paio di cose sulla vita le sappiamo, e anche sulla morte, e possiamo dirle: abbiamo fatto tutta questa strada per incantarti e per smuovere il destino. 


Paradiso-e-inferno-Stefánsson-iperboreaJón Kalman Stefánsson
Paradiso e inferno 
Traduzione di Silvia Cosimini, postfazione di Emanuele Trevi
Iperborea
2011
pp. 240
ISBN 9788870911909

Commenti

  1. C'è bisogno di dire che concordo pienamente sulla parte iniziale, sulla questione del bello? Il bello presuppone stasi, sussiste per se stesso e non ha bisogno di riconoscimenti, mentre - come ci insegna Burke - è il sublime che «ha bisogno di noi, ci vuole non solo disponibili ma addirittura vulnerabili alla sua azione». Bello può essere... un cagnolino che desta affetto e tenerezza, o comunque qualcosa che a questi sentimenti si avvicini, come la tranquillità. E - soprattutto - il bello riguarda la forma, quindi qualcosa di fisico, ben definito.
    Ma torniamo a Stefánsson, che probabilmente è il primo autore islandese che avrei dovuto leggere al posto di tu-sai-chi. La prima frase che hai riportato mi ha fatto venire in mente proprio un passo di Milton:
    «(…) O’er many a dark and dreary vale
    They pass’d, and many a region dolorous;
    O’er many a frozen, many a fiery Alp;
    Rocks, caves, lakes, fens, bogs, dens, and shades of death,
    A universe of death.»
    Io ti prometto che lo leggerò :)

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    1. E ne sono felice! Io prometto a me stessa di leggere John Milton (prima o poi...).

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  2. Bello, brutto, cattivo o buono (di quest'ultimo odio già il suono delle sillabe, soprattutto se accostato a libro): è soggettivo giudicare un'opera e i giudizi che esprimiamo derivano dalle sensazioni che ci ha lasciato. Riconoscere la capacità di narrare di uno scrittore è un'altra cosa. Oggettivamente.

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    1. Io cerco, nel mio piccolo, di prestare attenzione. Non ne faccio una questione di stato, però se posso utilizzare un termine piuttosto di altro per meglio rendere il sapore di un romanzo... beh, preferisco.

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  3. Bella, ehm… chiedo scusa, volevo dire magnifica questa tua presentazione di Stefánsson ;-) Un autore che anch’io devo ancora conoscere, grazie per l’input.

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  4. Letto "Luce d'estate ed è subito notte" ed ora mi hai incuriosito per "Paradiso e Inferno" che cerco all'istante! Stefansson l'ho sentito per telefono perché ho inserito una sua poesia nella copertina del mio ultimo cd registrato proprio in Islanda, una persona molto disponibile. =) Grazie

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    1. Io ho assistito alla presentazione al Salone di Torino. L'ho conosciuto lì. Non te lo aspetti da un islandese che sia pure simpatico! Aspetto di sapere cosa ne pensi. Grazie per essere passato!

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  5. Io li ho letti tutti. Lo adoro! quando parla del " canto delle stelle" ho le lacrime!

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