Chimamanda Ngozi Adichie e la storia di una vera “Americanah”



La prima cosa che ho fatto quando ho finito di leggere Americanah è stata aprire il sito di Google e scrivere nella casella di ricerca: “Chimamanda Ngozi Adichie hair”. La verità è che volevo vedere i suoi capelli, volevo sapere se ha i sisterlocks, i cornrow o se porta le weaves. Ho trovato un’intervista di The Cut intitolata Chimamanda Adichie on Black Hair and the Narrow Definition of Beauty, un pezzo in cui l’autrice cerca di spiegare la citazione contenuta nel suo libro: «I capelli sono la metafora perfetta per la razza in America». Chimamanda ammette che parlare di capelli è complicato: tutti vediamo quello che gli altri hanno in testa, ma pochi si domandano cosa ci sia dietro e meno persone si prodigano per cercare di capirlo. Un po’ come la questione della razza, aggiunge.

Provate a chiedere a una donna se è soddisfatta dei capelli che ha. Vi parlerà di un rapporto fatto di alti e bassi, di giorni buoni e di giorni meno buoni. Se ha i capelli ricci vi dirà che li vorrebbe lisci e ordinati, nel caso contrario vi confiderà che ha sempre desiderato onde eccentriche e volumi esasperati. E cosa fanno, le donne, quando vogliono dare una svolta alla propria vita? Se questo vi sembra un discorso superficiale non avete colto il punto: cambiare taglio, cambiare colore, è dare una nuova immagine di sé, magari più giovane, più audace, comunque diversa. Vuol dire essere (credersi o far credere di essere) un’altra persona, e questo è solo il primo livello della piramide. Coprire o scoprire i capelli, acconciarli in un modo invece che in un altro, sono decisioni che in alcuni contesti diventano messaggi, opinioni, posizioni intellettuali (Non a caso Ifemelu scriverà un articolo sul suo blog che intitolerà La chioma da urlo di Michelle Obama come metafora razziale).

Ifemelu è una ragazza nigeriana che vive in America da tredici anni. La incontriamo nelle prime pagine del libro su un treno per Trenton; vuole farsi un kinky twists ma a Princeton non ci sono saloni afro. Ifemelu ha i capelli meno belli di sua madre, un po’ più radi sulle tempie, ma quando viveva in Africa li portava al naturale, ribelli e grintosi. Decise di passare al lisciante qualche tempo dopo essersi trasferita in America, quando aveva già incontrato un fidanzato Bianco e Sexy ma aveva ancora problemi a trovare un lavoro. Nell’oggi del romanzo, Ifemelu è una famosa blogger che porta i capelli come Dio li ha fatti e ha deciso che tornerà a vivere a Lagos, in Nigeria.
Non vogliamo che ci dicano: «Guarda quanti progressi abbiamo fatto, solo quarant’anni fa sarebbe stato illegale perfino essere una coppia, e bla bla bla», perché sai cosa pensiamo quando lo dicono? Pensiamo: «Ma perché cazzo avrebbe dovuto essere illegale, in fondo?»
Americanah è un ibrido interessante: è un’opera di narrativa che procede per flashback e anticipazioni, un po’ autobiografica con qualche spunto di non fiction – gli articoli che Ifemelu pubblica sul suo blog – per approfondire la questione razziale. 
Ci sono due momenti importanti, nella storia di Ifemelu: il primo, quando si scopre nera, e il secondo, quando si rende conto di essere diventata americana. In Nigeria, Ifemelu non aveva mai dovuto affrontare il problema della razza; andava a scuola, mangiava fette di platano fritto e passava i pomeriggi a fare progetti insieme a Obinze. Ma in America Ifemelu scopre una realtà che non è come aveva immaginato che fosse. Se la figura del razzista è superata, sepolta insieme a termini come schiavitù e segregazione, il razzismo esiste ancora. Solo che si manifesta in modo diverso, spesso è l’equivoco nel quotidiano che rivela quanto sottile ma consolidata sia la diffidenza verso lo straniero: adulazioni fuori luogo, attenzioni moleste, una certa carità ostentata; la convivenza, più che un diritto acquisito, sembra una gentile concessione.

Ifemelu continua a pensarsi africana, s’indigna e si rammarica di ciò che vede, eppure comincia a cambiare senza accorgersene. Diventa così brava a simulare l’accento che un giorno un uomo si complimenta con lei perché “sembra totalmente americana”. Lei lo ringrazia entusiasta, poi si vergogna (perché l’aveva preso come un complimento?) e decide di smettere di fingersi chi non è, a partire dai capelli. È in quel momento che comincia la sua evoluzione, in una specie di percorso formativo in cui prende finalmente coscienza di sé. Per questo decide di aprire un blog, per parlare a chi come lei “è diventato nero in America”. Lo chiama Razzabuglio, o varie osservazioni sui Neri americani da parte di una nera non americana.
La razza non è biologia: è sociologia.
Il razzismo descritto in Americanah è un atteggiamento d’intolleranza trasversale. Non sono solo i neri contro i bianchi, ma i WASP contro gli afroamericani, gli afroamericani contro i neri non americani, gli inglesi contro gli americani, gli africani ricchi contro gli africani meno ricchi. Sono assoggettamenti economici, sociali e culturali. Gli stessi neri non americani, una volta trasferiti in America, s’innamorano dell’inverno, mangiano hot dog e mal sopportano la provincialità che vedono nei parenti quando vengono a trovarli. La gratitudine dell’immigrato fa scattare un meccanismo d’imitazione e il bisogno d’integrarsi richiede il sacrificio di ogni principio o legame affettivo.

Americanah è un romanzo esplicito e diretto. È la storia d’amore di un uomo e una donna che si ritrovano dopo aver affrontato percorsi simili in circostanze diverse. È la riflessione di un gruppo di intellettuali neri, americani e non, che si chiede se l’America è pronta per un presidente nero (gran parte della storia è ambientata nel primo decennio del duemila, quando Barack Obama si candida alla presidenza degli Stati Uniti). È soprattutto il risultato di un obiettivo preciso, la risposta provocatoria a una sfida che Chimamanda Ngozi Adichie lancia a sé stessa:
Non si può scrivere un romanzo onesto sulla razza in questo paese. Se scrivi su come la gente è condizionata dalla razza, è troppo ovvio. I pochi scrittori neri che fanno narrativa di qualità in questo paese, e sono tre, non i diecimila che scrivono quelle cazzate di libri sui ghetti con le copertine sgargianti, hanno due scelte: o fare i preziosi o fare i pretenziosi. Quando non sei né l’uno né l’altro, nessuno sa cosa farsene di te. Quindi, se vuoi scrivere di razza, devi cercare di farlo in modo lirico e sottile così che il lettore che non legge tra le righe non si accorge neppure che si parla di questioni razziali. 
Questo romanzo non poteva essere scritto in modo diverso: è aperto, soggettivo, parziale ma onesto. È un punto di vista chiaro col quale posso trovare accordi e disaccordi, e lo preferisco rispetto a un libro che, magari in modo meno trasparente, cerca d’indirizzare le mie opinioni. O, peggio ancora: del tutto incapace di suscitare un dibattito.

Chimamanda Ngozi Adichie ha deciso di fare della sua scrittura, più in generale della sua presenza nel panorama culturale, un elemento a sostegno di due condizioni che vive in prima persona: essere nera ed essere donna. Ha scritto un libro, L’ibisco viola, per raccontare il tipo di sudditanza che ancora oggi viene imposto alle donne africane nelle famiglie. Chimamanda ha tenuto un discorso al TED x Euston, We should all be feminists, che è diventato virale in pochi giorni. Il suo è un femminismo contemporaneo, che non rigetta la femminilità, non condanna la valorizzazione della bellezza, consapevole del fatto che la forma non scalza la sostanza (ha da poco firmato un accordo con Boots per il lancio di una nuova collezione di make-up). È una “felice femminista africana” che non odia gli uomini, indossa il rossetto e i tacchi alti, e prova a spiegare perché argomentazioni limitanti come la razza o il genere c’impediranno sempre di riconoscerci per quello che siamo.



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Americanah, Chimamanda Ngozi Adichie. Einaudi, 2015. Traduzione di Andrea Sirotti.

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