Quando Michele Mari leggeva Moby Dick



Ho scoperto Otto scrittori di Michele Mari qualche giorno dopo aver concluso la lettura di Moby Dick
Il racconto è contenuto in Tu, sanguinosa infanzia, una raccolta che accoglie una serie di storie legate a quell’età più inconsapevole e perciò più fatale. La voce narrante è quella di un uomo che sta per diventare padre e viene assalito da un senso d’angoscia; non è tanto la paura della nuova responsabilità ma è il peso delle rinunce che comporterà la condizione di genitore: l’uomo si domanda quanto di sé dovrà adattarsi alla presenza del nuovo essere. Così comincia un viaggio umoristico, alla riscoperta di quei piccoli episodi vissuti da bambino che hanno caratterizzato in modo determinante la personalità dell’adulto. Tra i vari cimeli d’infanzia, l’uomo non può fare a meno di citare i suoi scrittori preferiti; otto, che però diventavano uno soltanto, e da qui comincia a raccontare.

I nomi degli scrittori, che quand’era giovane si alternavano nella sua mente come «le fasi della luna», sono quelli di Joseph Conrad, Robert Louis Stevenson, Herman Melville, Emilio Salgari, Jules Verne, Edgar Allan Poe, Daniel Defoe e Jack London. Tutti avevano scritto di mare e di avventura, ognuno di loro aveva inventato personaggi che avrebbero potuto essere i protagonisti dei romanzi degli altri sette. Un’unica voce gonfiava il cuore del ragazzo e alimentava il suo senso di meraviglia. A un certo punto, però, s’insinuò un pensiero: cominciò a credere che gli otto scrittori non fossero proprio tutti uguali, che quella coralità che il suo sentimento aveva imposto non rendesse loro piena giustizia. Ci penso ancora ed ebbe l’impressione che uno di loro fosse meno integrato, il suo stile lo rendeva un po’ più estraneo. Se ne pentì subito, si sentì un traditore. Ma ormai quel nome gli era venuto in mente e con grande sofferenza il giovane congedò Jules Verne. Sentì di aver fatto la scelta giusta e si rasserenò. Una sensazione che durò pochi istanti perché analizzando di nuovo quella voce così familiare trovò un’altra nota stonata: un nuovo addio, questa volta a Daniel Defoe. E così tutti, uno alla volta, e ogni volta era colpa e struggimento. Ma la missione era importante: trovare la voce autentica, il punto di origine. Più difficile fu allontanare Jack London e Joseph Conrad. Quando rimasero Stevenson e Melville, il ragazzo era stremato e lasciò che fossero loro a stabilire i termini della sfida. Stevenson decise di gareggiare facendosi scudo con il suo libro più celebre, L’isola del tesoro, il romanzo dal quale nacque l’indimenticabile pirata Long John Silver. Ma Melville si oppose con Moby Dick e sullo sfondo un beffardo Achab pregustava già la vittoria.
Un libro come quello nessun uomo può averlo scritto perché quel libro è l’Apocalisse e la sua parola è antica come il boato della Profezia e il suo respiro è il rantolo degli Angeli caduti, e di fronte alla sua immanità tutto è come scherzo di fanciulla e di fronte alla sua smisuratezza tutto è madrigale (...) quel libro i cui simboli esercitano sul lettore quasi una violenza fisica; quel libro che sembra aggirarsi lentamente intorno al suo tema quando invece è il tema che gira intorno a noi in spire sempre più vorticose; quel libro impuro che travolgendo le regole è nel contempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo, tragedia, sacra rappresentazione, ballata; quel libro che interroga incessantemente la Morte incalzandola da presso come la lancia dei ramponieri incalza l’immensa bestia; quel libro dello squarciamento e del colamento, dell’urlo e della demenza, del tormento e della dannazione, no, quel libro non poteva essere stato scritto da un uomo, e per questo io pronunciai “Herman Melville” come avessi detto Aleph o Adonai*.
In un passaggio di Moby Dick, Melville suggerisce che «per produrre un libro immenso, devi scegliere un tema immenso» e lui ci riuscì partendo da una storia molto semplice: un incidente di caccia. S’ispirò a un fatto realmente accaduto nel 1820: l’affondamento della baleniera Essex dopo l’urto con un capodoglio a largo della costa occidentale del Sud America; prendendo spunto da quell’episodio, Melville scrisse il suo capolavoro. Non esiste niente come Moby Dick eppure non sarebbe troppo sbagliato dire che tutto è stato scritto a partire da Moby Dick. La caccia alla balena è soltanto un pretesto perché Moby Dick rappresenta la paura dell’ignoto, l’attrazione per il mistero, il desiderio di riscatto, l’idea che è sempre meglio morire per uno scopo che vivere senza prospettiva. Se non è meglio, in certe persone diventa inevitabile. È una maledizione. Una forza indicibile, imperscrutabile, ultraterrena, conduce il capitano Achab in profondità che non aveva mai pensato di raggiungere. La lotta tra Achab e la Balena è la sfida dell’uomo contro la natura, più in generale l’eterno conflitto che ogni volta, in uno scontro senza vincitori né vinti, ci dimostra quanto nell’uomo ci sia tutto il bene e tutto il male del mondo. «Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!» avverte il coscienzioso Starbuck, il primo ufficiale del Pequod. Ma Achab non ascolta, non c’è ragione che tenga:niente potrà fermarlo, né l'amore, né il mare, né il sentore di una morte imminente, perché la vita non avrà più senso finché non arriverà quel momento in cui affonderà il suo rampone nella carne della balena. 

E poi? Cosa succederà, poi? Cosa te ne farai, capitano Achab, di tutto quel bianco?
Il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori.


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Libri citati
Moby Dick, Herman Melville. Feltrinelli, 2013. Traduzione di Alessandro Ceni.
Tu, sanguinosa infanzia, Michele Mari. Einaudi, 2009.

* Aleph è la prima lettera dell'alfabeto ebraico, Adonai, sempre in ebraico, è il nome del Signore, il Dio della Bibbia.

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