Stig Dagerman e i giovani cuori ardenti



Nel 1943, a vent’anni, Stig Dagerman scrisse un articolo per la rivista anarchica Storm e lo intitolò Cuori ardenti. Il titolo prendeva il verso da una poesia di Rudolf Nilsen, La voce della rivoluzione.
Datemi cuori ardenti,
che mai si perdano nel dubbio,
ma nella vittoria e nella sconfitta
conservino invulnerabile il sorriso.
«Cuori ardenti», cominciò Dagerman, «A chi interessano più i cuori, ormai?». La domanda è disarmante; non è tanto la difficoltà di dare una risposta a una richiesta retorica ma la scelta delle parole con le quali Dagerman decide di porre la questione. È il cuore a creare imbarazzo. Protagonista occulto di ogni dramma, verso o romanzo, "cuore" è un termine che oggi si fatica a pronunciare per il timore di cadere in qualche luogo comune. Non lo si vede spesso e quando appare è difficile scardinarlo da un contorno superficiale e ammiccante. Allora è meglio evitarlo, a maggior ragione in un articolo di giornale, provare dei sinonimi, cercare delle alternative: sentimento, animo, audacia, coraggio. Oppure centro, nucleo, essenza. Ma Dagerman è assoluto, lucido e trasparente, la sua prosa non ammette licenze.

Dagerman scriveva nella Svezia del dopoguerra, una nazione che è riuscita a tenere un comportamento ambiguo per tutta la durata del conflitto anche se si trovò accerchiata da diverse situazioni d’emergenza. Nel 1939 la Finlandia fu invasa dalle truppe dell’Unione Sovietica e nell’aprile dell’anno successivo la Danimarca e la Norvegia furono occupate dalla Germania. Formalmente neutrale, la Svezia appoggiò la lotta dei finlandesi contro il regime sovietico e continuò a favorire i tedeschi per un tacito accordo di non-belligeranza. Sequestrava i giornalisti antifascisti e fermava i profughi ebrei alla frontiera, allo stesso tempo forniva rifugio e assistenza ai danesi e ai norvegesi che militavano nella resistenza. Il popolo svedese non si sentiva coinvolto: nessuno veniva arrestato, nessuno era costretto a scappare o nascondersi. Eppure la tensione era evidente, la parvenza di pace solo un ammaraggio di fortuna. Per Dagerman quella condizione era inaccettabile perché di fatto ogni svedese viveva, nella sicurezza apparente, la vita del perseguitato: la guerra ci riguarda e vi riguarda, scriveva, il dramma è appena sotto la pelle. Riguarda anche te, te e la tua esistenza «perché hai un cuore, certo che ce l’hai. E sei giovane, certo che lo sei».

A chi interessano più i cuori, ormai?

Stig Dagerman nacque nel 1923 in una fattoria vicino a Uppsala. Trascorse la sua infanzia con i nonni perché sua madre lo abbandonò dopo il parto e suo padre andò a vivere a Stoccolma. Stig lo raggiunse appena compiuti undici anni. A tredici anni cominciò a frequentare le riunioni dei movimenti anarchico-sindacali e qualche tempo dopo iniziò a ricoprire ruoli più attivi, soprattutto come giornalista. Scrisse per diverse testate legate al movimento fino ad arrivare a dirigere la rivista Arbetaren. Stig Dagerman è stato definito il Camus svedese per il suo istinto di rivolta contro ogni forma di oppressione. Nell’articolo Il mio punto di vista sull’anarchismo spiega che nella scelta di un’ideologia politica un fattore discriminante «è sempre la constatazione del fallimento di ogni altra possibilità», e un governo che non è in grado di rispettare il principio inviolabile della libertà fallisce, a prescindere dalle premesse con le quali si presenta. Così la democrazia può diventare il peggiore tra i regimi dittatoriali se asseconda un sistema nel quale sono i più forti ad avere il potere sui meccanismi che tengono insieme la società. Perciò nessuno può esimersi dal prendere una posizione, rivelare un orientamento politico che è il risultato di un’esigenza più ampia: un’affermazione esistenziale e spirituale. Questo intendeva Dagerman quando si definiva «politico dell’impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile»: il suo pensiero era rivolto a un futuro migliore e non soltanto soddisfacente, assecondava l’utopia per evitare che della resilienza se ne facesse un merito e della rassegnazione uno stile di vita.

Nonostante avesse una visione misurata di ogni problema, quando Dagerman si spostava su una dimensione più personale non riusciva a tenere un giudizio obiettivo e i suoi ideali lo influenzavano come cittadino, come scrittore e come uomo. Viveva di contraddizioni e ogni entusiasmo si trasformava in una condanna che accompagnava spesso a un profondo senso di colpa. La scrittura, per esempio: l’etica dello scrittore è un argomento sul quale Dagerman si è soffermato spesso, come nell’articolo Lo scrittore e la coscienza. Secondo Dagerman nessuno è veramente libero dal contesto in cui opera perciò lo scrittore che s’illude di trovare una soluzione tra sensibilità artistica e identità sociale si addentra in un labirinto senza uscita. Solo accettando il paradosso potrà riuscire, o almeno provare, a trovare una forma di espressione che sia la più sincera possibile. Ma la letteratura non gli rese i benefici che sperava perché la catena che lo costringeva, Libertà-Conflitto-Colpa, non gli ha mai dato tregua. Dagerman morì suicida il 5 novembre 1954.

A ventidue anni pubblicò il suo primo romanzo, Il serpente, e ottenne un successo inaspettato. Venne considerato uno degli autori di maggiore talento della sua generazione. Scrisse diversi articoli, racconti e romanzi – Bambino bruciato, la raccolta I giochi della notte e i reportage di Autunno tedesco. Avrebbe dovuto essere felice, ma l’inquietudine subentrò quando si accorse che il suo lavoro era seguito dalle stesse persone che la sua ideologia rigettava: «lui che voleva scrivere per gli affamati, si rende conto che solo chi è sazio ha la calma necessaria per accorgersi della sua esistenza». La classe operaia aveva problemi più pressanti per dedicare tempo alla letteratura. Dagerman si sentiva in trappola: intrappolato dall’idea di un talento che aveva paura di scoprire di non avere, schiavo del suo nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. Non ammetteva consolazione perché il conforto era per lui solo una rincorsa più lunga verso la disfatta, una caduta da un piano più alto. La libertà era un concetto così importante che all’idea astratta d’indipendenza, Dagerman collegava una responsabilità individuale e collettiva, un obbligo morale che non ammetteva compromessi: «Parlo di quella libertà che deriva dal privilegio di essere padrone del proprio elemento. Il pesce ha il suo elemento, l’uccello ha il suo, l'animale di terra ha il suo. L’uomo invece si muove in questi elementi correndo tutti i rischi dell'intruso». Riprese la questione dell'elemento, una dimensione che possiamo ricondurre al contesto sociale, in Il nostro bisogno di consolazione, un testo cupo e disperato, considerato a posteriori una sorta di testamento spirituale.
Non possiedo una filosofia in cui potermi muovere come l’uccello nell’aria e il pesce nell’acqua. Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione. Dovrei forse dire: la vera consolazione, perché a rigore non c’è per me che una sola vera consolazione, e questo mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, una persona inviolabile entro i miei limiti.
Dagerman si chiedeva che vita fosse, la sua, dominata da ideali esaltanti ma vincolata alla paura di fallire: «il suicidio è l’unica prova della libertà umana». Anche in quest’affermazione fa eco a Camus, che nel saggio Il mito di Sisifo ammette che il suicidio è l’unico problema filosofico veramente serio. Ma se avesse seguito il pensiero del fratello francese fino alla fine, Dagerman avrebbe imparato anche che: «Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l'azione. Ciò si chiama diventare un uomo. Per voi e per me questa è una liberazione». Al contrario di quel che si può pensare, a prescindere dalla conclusione che ha scelto per sé, Dagerman era un ottimista, e questo è il motivo per il quale è importante recuperare le sue opere e leggerle nella giusta ottica. Nell'articolo Il pessimismo: coraggio o moda esprime la sua avversione rispetto alle «traballanti teorie sulla malvagità umana». L’uomo non è malvagio ma un essere umiliato e offeso, una vittima della propria condizione. Ecco perché ognuno dovrebbe cercare un modo di stare nella società dei paradossi senza soffrire troppo e trovare una consolazione che brilli per più di un attimo, un motivo abbastanza valido da opporre al buio della disperazione.
Presto tornerà la luce, sicuro che tornerà. [...] Quel giorno il poeta li avrà i suoi cuori ardenti, su cui il dubbio non avrà alcun potere, e che affronteranno la sconfitta con lo stesso invulnerabile sorriso della vittoria finale. Quel giorno verrà, verrà presto. Lo sappiamo. Lo sentiamo nei nostri cuori. I nostri cuori ardenti.


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La politica dell’impossibile. Iperborea, 2016. Postfazione di Goffredo Fofi.
Il nostro bisogno di consolazione. Iperborea, 2011.
Traduzioni di Fulvio Ferrari.

Commenti

  1. Il primo libro che acquistai della casa editrice Iperborea fu “Il viaggiatore” di Stig Dagerman. All’epoca non sapevo bene né chi fosse Iperborea né tanto meno Stig Dagerman. Fui attratta dalle copertine della casa editrice e dal formato che ha continuato a contraddistinguerla. Pensavo di avere tra le mani un libro di viaggi con tutto ciò che il concetto di viaggio racchiude: curiosità, allegria, avventura. Puoi immaginare che schiaffo ricevetti.
    Se non hai ancora letto “Il viaggiatore” non posso che consigliartelo. Io penso che leggerò Il nostro bisogno di consolazione.

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    1. Non ho mai letto Il viaggiatore ma lo conosco per la citazione (bellissima): "Sua colpa fu l’innocenza". Mi rendo conto che leggere Dagerman non è semplice; non è semplice entrare, e dover uscire, dopo, da certi discorsi. Però io leggo lui e tutti gli autori "di rottura" per interrompere un certo pensiero accomodante in cui ogni tanto mi perdo. Alcune conclusioni non le condivido, anche perché sono dettate da una mente dichiaratamente depressa, però le premesse sono tutte giuste. Da quelle c'è solo da imparare.

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