Colazione da Tiffany e l’happy ending che non si perdona



Quando ci fu bisogno di dare un volto a Holly Golightly, Truman Capote pensò subito a Marilyn Monroe. L’attrice aveva, come la protagonista del libro, «l’aria sana di chi vive di latte e di burro. Le guance d’un rosa acceso, la bocca grande» e il peso di un’infanzia complicata che avrebbe reso l’interpretazione più fedele all'originale. Ma Capote aveva venduto i diritti alla Paramount Pictures che alla fine preferì Audrey Hepburn. La decisione si rivelò felice perché quel ruolo valse alla Hepburn la candidatura al premio Oscar come migliore attrice. Questo non fu l’unico torto che avvertì Capote; lo scrittore restò inorridito da tutte le licenze che George Axelrod prese dal romanzo per adattare la sceneggiatura alle convenzioni cinematografiche della commedia romantica, soprattutto sul finale.

Ma andiamo con ordine.

Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s) è un romanzo del 1958 dello scrittore americano Truman Capote. Il film del 1961 è stato diretto da Blake Edwards, interpretato da Audrey Hepburn e da George Peppard. La prima scena del film è tra le più celebri della storia del cinema: una donna giovane ed elegante, in abito nero (un tubino Givenchy), capelli raccolti, grandi occhiali e collana di perle, scende dal taxi e consuma una rapida colazione di fronte alle vetrine di Tiffany, la storica gioielleria sulla Fifth Avenue di New York. È Holiday Golightly. Lo scrittore Paul Varjak (che nel romanzo è la voce narrante) vede Holly per la prima volta rientrare da una delle sue solite serate passate tra i locali più glamour di Manhattan in compagnia di uno degli uomini che frequenta. Il nome della ragazza, che scopriremo non essere quello vero ma uno che ha scelto per sé, rispecchia il modo che ha approcciarsi alla vita: “go lightly”, lievemente, senza pensare troppo alle conseguenze delle proprie azioni. Per affermare il concetto, sulla cassetta della posta si legge: Signorina Holiday Golightly, e sotto, in un angolo, in transito. Ma questa è solo la superficie perché Holly è tutto ciò che non si vede e lo dimostrano i suoi stati d’inquietudine repentini e profondi. Lei li chiama “Avere le paturnie”. Quando Paul le chiede se le paturnie sono qualcosa di simile alla tristezza, lei risponde di no perché uno è triste se si accorge che sta ingrassando, per esempio, o perché piove. No, dice, le paturnie sono orribili: «È come un’improvvisa paura di non si sa che. È mai capitato a Lei?». Ed è a questo punto che Holly fa riferimento alla gioielleria:
Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo. Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime sensazioni di Tiffany, allora comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto!
Holly non lascia troppo spazio ai cattivi pensieri perché sa che possono prendere il sopravvento. Preferisce mettere un po’ di rossetto o ravvivare il colore delle guance. Questo atteggiamento mi ha fatto venire in mente Daisy Buchanan, la Daisy del romanzo Il grande Gatsby, quando confessa a Nick Carraway sul balcone della villa di West Egg che: «È la cosa migliore in questo mondo: essere una bella oca giuliva», una frase che nasconde infiniti sottintesi e altrettante implicazioni. Holly è alla continua ricerca di sé, un cammino che scopre sempre più accidentato, colpa di un passato un po’ troppo ingombrante lasciato in una tenuta nel Texas. Ma quando è costretta a guardarsi indietro sente di non essere cambiata, nonostante non si senta mai uguale a se stessa. L’unica cosa che sa è che l’amore dovrebbe essere libero, slegato da ogni giudizio, e che nessuno appartiene veramente a qualcuno. Holly rivela molto di sé quando, ubriaca e più sincera, si rivolge al barista Joe Bell con queste parole:
«Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell», lo ammonì Holly. «È stato questo lo sbaglio di Doc. Si portava sempre a casa qualche bestiola selvatica. Un falco con un’ala spezzata. Una volta un gatto con una zampa rotta. Ma non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica; più le si vuole bene più forte diventa. Finché diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo».
Paul si scopre sempre più innamorato ma Holly s’invaghisce di José Ybarra-Jaegare, un diplomatico brasiliano. Mentre la ragazza prepara i bagagli per raggiungere l’uomo in Sud America, un evento darà ai suoi progetti una linea diversa. A questo punto la visione dello sceneggiatore si distacca da quella dello scrittore.

Eccola, la nota stonata: il finale.

Il libro non ha un lieto fine: il bacio che appare alla fine del film tra Holly e Paul, che sembra anticipare una storia d’amore, nel romanzo non c’è perché Holly parte per il Sud America anche se sa che al suo arrivo non ci sarà José ad attenderla. Decide di lasciare New York e chiede a Paul di mandarle una lista dei cinquanta uomini più ricchi del Brasile, senza distinzioni di razza e di colore. Nell’incipit del romanzo, a parecchi anni di distanza, Paul non sa che fine abbia fatto la ragazza. Il film rende il personaggio di Holly più accettabile, più aderente ai canoni del periodo, omettendo ogni tipo di riferimento al concetto di amore libero. Nessun accenno al discorso, contenuto nel libro, su come tutti i tipi di rapporti debbano essere ammessi (Holly confessa a Paul che Greta Garbo è sulla sua lista di partner di vita ideali). Interrogato sulla presunta bisessualità della protagonista, Capote risponde in un’intervista del 1968 per Playboy con un’affermazione che non lascia possibilità di appello: «Let’s leave Holly out of it».

«The book is more authentic» affermò Gerald Clarke, il biografo di Truman Capote: «The movie is a confection – a sugar and spice confection». Una confezione sdolcinata per un personaggio che nelle intenzioni dell’autore era complesso e contaminato, non così positivo. La conversione di Holly è poco credibile, troppo banale e abbastanza incoerente con la personalità mostrata durante tutta la storia. Quando Holly regala a Paul un’uccelliera che i due avevano visto qualche giorno prima in un negozio di antiquariato, si fa promettere di non usarla per metterci una creatura viva. Lui le fa notare che è un bell’oggetto e lei risponde che lo è, ma è comunque una gabbia. Non si può addomesticare una creatura selvatica, e questa è Holly, così come impariamo a conoscerla leggendo il romanzo. È indipendente come la città di New York: «Amo New York, anche se non è mia nel modo in cui qualcosa deve esserlo, un albero, una strada, qualcosa che mi appartiene perché io le appartengo».

Ci sono state diverse insinuazioni, nate dalla curiosità di sapere se Holly Golightly esistesse davvero. Qualcuno credeva che la musa di Capote fosse Dorian Leigh Parker, una famosa modella negli anni ’40, una donna dai grandi occhi blu che lo scrittore frequentava spesso. Altri supponevano che Holly fosse il ritratto di Carol Grace, un’attrice nota per aver sposato, per due volte, lo scrittore William Saroyan. In effetti, nell’intervista citata in precedenza, Capote ammise di essersi ispirato a una ragazza realmente esistita, figlia di rifugiati tedeschi, conosciuta quando vivevano nello stesso edificio nell’Upper East Side. Ma forse la verità è quella di Gerald Clarke, che disse: «The one Holly most resembles, in spirit if not in body, is her creator». Come Holly, Capote fu costretto a dimenticare un’infanzia non troppo felice e a inventarsi dal nulla. Holly era tutto ciò che Capote pensava di essere, o che avrebbe voluto essere, e non riusciva a immaginare per sé un happy ending da commedia romantica.

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More than words, un approfondimento musicale

Nei giorni in cui il sole era più caldo, Holly si metteva a sedere sulla scala d’emergenza assieme al gatto, un maschio rosso tigrato, e suonava la chitarra mentre i capelli le si asciugavano. Qualche volta cantava; aveva un timbro rauco e un po’ incerto, abbastanza piacevole. Conosceva i grandi successi di Cole Porter e Kurt Weill, ma più spesso cantava testi malinconici, «con parole che sapevano di pini e praterie», che continuava a ripetere quando i capelli erano asciutti e il sole tramontava. Il ritornello che Truman Capote scrisse per Holly è questo: 

Don’t wanna sleep | Don’t wanna die | Just wanna go a-travelin’ trough the pastures of the sky.
Non voglio dormire, non voglio morire, voglio solo andare a viaggiare tra i pascoli del cielo.

Per il film, invece, Henry Mancini e Johnny Mercer composero Moon River, una canzone che ebbe un successo strabiliante. Ottenne l’Oscar per la migliore canzone nell’edizione del 1962 e vanta, ad oggi, più di cinquecento cover. La canzone venne pensata appositamente per la Hepburn, per adattarla alla sua estensione vocale. Moon river richiama il bisogno di Holly di fuggire, quel desiderio inappagabile di libertà.
Moon River | Wider than a mile | I’m crossin’ you in style | Some day | Old dream maker | You heart breaker | Wherever your goin’ | I’m goin’ your way | Two drifters | Off to see the world | There’s such a lot of world | To see | We’re after the same | Rainbow’s end | Waitin’ round the bend | My huckleberry friend | Moon River | and me.
Fiume di Luna | più ampio di un miglio | Ti attraverserò con stile | un giorno | Vecchio creatore di sogni | Tu spezzacuori | Ovunque tu andrai | io seguirò il tuo corso | Due vagabondi | in giro a vedere il mondo | C’è così tanto mondo | da vedere | entrambi cerchiamo la fine | dello stesso arcobaleno | che ci aspetta dietro la curva | Il mio migliore amico | Fiume di Luna | ed io.
Interessante è il riferimento ad Huckleberry. Mercer era cresciuto a Savannah, in Georgia, e da bambino passava tutte le estati sulle sponde del fiume a raccogliere huckleberries (mirtilli selvatici). Secondo Mercer, le bacche ricordavano la spensieratezza e l’impudenza della gioventù, un concetto rafforzato dall’inevitabile associazione con l’Huckleberry Finn di Mark Twain, autentico simbolo di libertà.

Qualcuno pensa che Moon river sia un po’ troppo sentimentale rispetto al testo della canzone di Truman Capote. Per me, invece, la colonna sonora è uno dei punti di forza del film: Moon river è una canzone eccezionale, il testo è evocativo ma non stucchevole, aderente al personaggio che racconta, e Audrey Hepburn è incantevole.

(Guarda il video di Moon river su Youtube).



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Colazione da Tiffany, Truman Capote. Garzanti, 2016. Traduzione di Vincenzo Mantovani.

Commenti

  1. Che belli! Entrambi! Sia il film che il libro. È vero che forse il finale romantico non è perfetto per lei, però non riesco a non amare entrambe le 'confezioni' in maniera... selvatica. :) Anche se forse, sotto sotto, preferisco la Holly che scappa in Brasile.

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    1. O magari il film finisce solo troppo presto. Quanto sarebbe durata tra i due? ;)

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    2. Attenzione che Hollywood potrebbe sentirti e fare un sequel! XD

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  2. Dubito che la Hepburn avrebbe vinto l'Oscar con il finale del libro: le regole di Hollywood sono sempre state rigide :)
    A parte questo, gli adattamenti sono sempre problematici perché libri e film lavorano su livelli diversi: tanto introspettivi i primi quanto "esterni" i secondi. Ecco perché il film non è (quasi) mai a livello del libro. E viceversa, naturalmente.

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    1. Sì, sono d'accordo, e i paragoni lasciano il tempo che trovano. Quando guardo una trasposizione non cerco precisi riferimenti al libro; mi fa piacere trovarne ma m'incuriosisce di più l'interpretazione del regista (dello sceneggiatore e di tutto il cast), che in alcuni casi riconosco più acuta di quella dello scrittore. E infatti ho guardato Colazione da Tiffany con piacere (eppure di differenze ce ne sono parecchie, più o meno sostanziali. Verrebbe fuori un articolo altrettanto lungo a elencarle tutte). Però sul finale ho proprio sentito il distacco dall'idea di base (anche perché nel film niente fa supporre che Paul sia per Holly più di un amico. Magari un amico un po' speciale, ma sempre amico rimane).

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  3. Da tempo volevo leggere questo libro, che purtroppo è stato un po' ridicolizzato da tutte quelle pseudo-Hepburn... Forse una capatina questa estate, vedremo. Già mi immagino il permaloso Capote quando ha saputo di tutti questi cambiamenti, certo non era una persona che le mandava a dire. Riguardo alle attrici la Monroe non avrebbe sfigurato, eppure non so perché questo ruolo sembra proprio essere tagliato per la Hepburn. Grazie per la recensione.

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    1. Sì, non era certo uno che si faceva passare la mosca per il naso. Non so se Marilyn sarebbe stata convincente nei panni di Holly, o forse è solo che siamo troppo abituati a vedere la Hepburn in quel ruolo che non riusciamo a immaginare qualcosa di diverso.
      Grazie a te per essere passata.

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  4. Sinceramente preferisco il film. Il libro non mi è piaciuto.

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  5. Grazie per questo articolo, l’ho letto davvero con molto interesse.
    Purtroppo finora ho visto solo il film che mi piace da sempre.
    Di Truman Capote avevo visto il film con lo splendido Philip Seymour Hoffman; mani vien già voglia di leggerne il romanzo.
    Grazie!!
    Caterina

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