Dorothy Parker e le scarpe troppo strette delle signorine di New York

Quando Dorothy Parker fu licenziata da Vanity Fair, nel 1920, l’ironia era già diventata il tratto principale del suo stile. Gli articoli della sezione spettacolo, di cui Dottie era responsabile, erano brillanti ma parecchio scomodi. Di una commedia scrisse che era un’ottima occasione per esercitarsi nel lavoro a maglia, e «se non siete interessati al lavoro a maglia, portatevi un libro». Il caporedattore di allora, Robert Benchley, decise che era meglio interrompere la collaborazione. Dottie accettò il licenziamento senza perdersi d’animo. C’erano sempre gli incontri della Tavola rotonda dell'Algonquin, il celebre circolo letterario newyorkese che vantava la presenza d’intellettuali come Woollcott, MacArthur e Art Samuels. The Vicious Circle, il “circolo vizioso”, come lo canzonavano gli stessi membri del gruppo.
E poi, nel 1925, Harold Ross fondò il The New Yorker e Dottie divenne una collaboratrice fissa. Tra le pagine della nuova rivista, la Parker poteva esprimersi liberamente, utilizzando il suo umorismo pungente per criticare il costume americano, recensire libri e spettacoli, pubblicare racconti e poesie. Il poemetto più celebre, uno di quelli che meglio sembra trasmettere lo spirito di Dottie, s'intitola Resumè, ed è del 1926:

Razors pain you; Rivers are damp;
Acids stain you; And drugs cause cramp.
Guns aren’t lawful; Nooses give;
Gas smells awful; You might as well live.

I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi;
l’acido macchia; i farmaci danno i crampi.
Le pistole sono illegali; i cappi cedono;
il gas fa schifo. Tanto vale vivere.

C’è un’altra poesia, però, meno famosa ma per me anche più importante:

Solo ti chiedo 
per le notti che furono,
soldato, e per le aurore che vennero,
quando nel sonno ti giri verso di lei, 
chiamala col mio nome.

La tristezza di una donna che decide di sacrificarsi, accontentandosi di un attimo nel ricordo della vita di un uomo, racchiude l’anima di tutte le signorine della New York che vive nei racconti di Dorothy Parker. Secondo me, questa poesia racconta molto anche di lei. Nata da una famiglia ebrea e cresciuta nell'Upper West Side, Dorothy Rothschild (moglie di Edwin Pond Parker, del quale manterrà il cognome anche dopo il divorzio) viene ricordata come la regina dei salotti letterari, col suo boa di struzzo, il gin inframezzato da qualche pasticca di Seconal. Ma è lei stessa a svelarsi, in una delle mille interviste rilasciate nel corso della sua carriera, basta prestare un po’ più di attenzione alle parole: «Dammit, it was the twenties and we had to be smarty. I wanted to be cute. That’s the terrible thing. I should have had more sense». La società impone un ruolo, e tu non puoi fare altro che indossarlo con eleganza. Dottie aveva scelto l’umorismo ché le permetteva di essere libera, almeno in apparenza. Comunque, non era ipocrita. Ed era l’unico modo per prendere le distanze dal modello di donna borghese che tanto criticava.
Gli uomini ti apprezzano perché sei divertente, e se gli piaci ti portano fuori, ecco fatto.
eccoci-qui-dorothy-parker

Le donne dei suoi racconti sono abituate a pensarsi incomplete se non hanno accanto un uomo. Sono belle, bellissime, e profumano come fiori. Sono donne che aspettano al telefono un marito che non le richiama, che non le considera. Ma tutte vogliono (o pensano di volere) le stesse cose: «una bella casetta. Un marito dolce, sobrio, puntuale per cena, sollecito al lavoro. (...) serate tranquille e serene». Questo passo è tratto da Una bella bionda, uno dei più emblematici racconti della Parker. Basta leggere l'incipit per capire il tipo di pressione che la società di quegli anni poneva sulle donne:
Hazel Morse era una bella donna, alta e formosa, il tipo che spinge certi uomini, quando pronunciano “bionda”, a schioccare la lingua scuotendo maliziosamente la testa. Si vantava dei suoi piedini minuscoli e soffriva per vanità costringendoli in scarpine strette con tacchi a spillo, della misura più piccola che riuscisse a sopportare.
I piedi costretti nelle scarpine di velluto, il cervello nascosto in deliziosi cappellini blu da venticinque dollari. Il punto è: quand'è che una maschera smette di essere qualcosa che porti, e diventa parte di te, più di te? Le donne di Dorothy Parker soffrono, ma spesso non riescono a capire la causa del loro dolore. L’alcol è una consolazione che occupa il tempo di un attimo. Meglio sognare di scappare, o di morire. Ancora Una bella bionda, una delle ultime scene: Hazel è nei pressi della Sesta Avenue, ubriaca già prima di sera. Una carrozza le passa accanto, trainata da un grosso cavallo pieno di cicatrici; l’animale cade sulla strada sdrucciolevole e non riesce a tornare in posizione. Il guidatore frusta il cavallo, senza dargli un attimo di respiro. Hazel è scossa, entra nel locale dove la attende Ed. O era Charley? Comunque, uno dei tanti dopo suo marito Herbie.
«Ho visto un cavallo,» rispose lei. «Gesù... io... che pena per quei cavalli. Io... non sono solo i cavalli. Tutto è orribile, non è vero? Non posso farci niente, mi deprimo.»
«Ah, ti deprimi, che palle», disse lui.
Dorothy è morta, sola e povera. Era quasi cieca. Ha tentato il suicidio parecchie volte ma è stata portata via da un infarto, nel 1967. Il suo epitaffio, in perfetto stile Parker, recita così: Excuse my dust.



***
In Italia due delle raccolte di racconti di Dorothy Parker, Eccoci qui (2013) – che contiene Composizione in bianco e nero e Una bella bionda –, e Dal diario di una signorina di New York (2015), sono pubblicate da Astoria edizioni e tradotte da Chiara Libero. Le recensioni e le poesie di Dorothy Parker citate nell'articolo sono tratte da I segreti di New York (Mondadori, 2000) di Corrado Augias.

Commenti