I racconti di J. D. Salinger e quel (non) senso che assomiglia alla vita



Qualche tempo fa contattai uno scrittore per proporgli un’intervista. Non l’avevo mai fatto e non l’ho più fatto da allora. Lui, lo scrittore, lo seguivo da un po’; avevo letto un paio di libri che aveva scritto e l’ultimo mi era piaciuto molto. La mia idea non era quella di un classico botta e risposta ma volevo provare a sviluppare un confronto che tenesse anche conto delle tematiche del libro, che mi interessavano parecchio. Avevo in mente di parlare, più in generale, delle scelte dei lettori; avevo la sensazione che lui fosse un gran lettore ed ero sicura di poter trarre dalle sue parole qualche spunto di riflessione. Gli dissi che volevo costruire questa cosa con lui, trovare il modo di far emergere quello che più ci premeva raccontare. Il problema fu che la discussione prese una direzione diversa da quella che avevo immaginato. L’idea dell’intervista mi lasciò quasi subito, mi dissi che non ero stata in grado di strutturare le domande nel modo giusto. In realtà, me ne resi conto qualche giorno più tardi, già dal primo scambio di battute la mia posizione era cambiata: non m’interessava più condividere con gli altri quello che mi stava dicendo perché mi sembrava così importante che volevo tenerlo per me. 

In un paio di messaggi appena, ci confrontiamo su tantissime cose: parliamo di scrittori e del mestiere di scrivere. Gli chiedo se c’è verità nella scrittura e in che misura lo scrittore si riversa nel proprio stile. Gli domando se noi siamo quello che scriviamo, nel modo in cui lo facciamo. Lui mi dice di sì, che siamo la nostra lingua, e dalla lingua che usiamo si capisce tutto di noi. Poi parliamo di racconti e tra gli altri scrittori di racconti parliamo di J. D. Salinger. Io non lo capivo, Salinger. O meglio, lo capivo, ma fino a un certo punto. Gli dico che l’avevo abbandonato e che se non fosse stato per una serie di coincidenze non l’avrei più ripreso. Anzi, gli dico: l’avrei lasciato andare. Prendo come esempio, per spiegarmi meglio, due dei suoi racconti più celebri: Un giorno ideale per i pescibanana e Per Esmé: con amore e squallore. Gli confesso che ci sono libri che ho bisogno di leggere anche due volte per capirli, per entrarci dentro.

Un giorno ideale per i pescibanana l’ho letto quattro o cinque volte e, gli dico, penso di essere riuscita a entrarci. Il racconto inizia in una stanza d’albergo dove c’è una donna che indossa una vestaglia di seta bianca che le scopre appena le gambe. La donna, Muriel, sta parlando al telefono con sua madre che è preoccupata perché il marito di sua figlia è tornato dalla guerra ma sembra che non abbia ancora elaborato tutto quello che ha vissuto. Si comporta in modo strano. «Non ha più fatto quei suoi scherzetti con gli alberi?». Muriel rassicura la madre dicendole che sembra che lui stia meglio, si sta comportando bene, tutto si sistemerà. L’obiettivo della telecamera si sposta: un giovane è sdraiato in spiaggia e una bambina gli si avvicina. I due parlano di tigri e di candele, olive e cera. L’uomo entra in acqua con la bambina e le dice che ci sono ottime possibilità di vedere un pescebana. I pescibanana sono quelli che vanno nelle grotte e fanno razzia di banane, poi gli viene la bananite e muoiono. L’uomo e la bambina tornano a riva. Altro cambio di scena: l’uomo sale in albergo, entra in una stanza, la donna in vestaglia è sdraiata sul letto, addormentata, lui tira fuori una pistola e si spara un colpo alla tempia. Io dico allo scrittore che il finale lo comprendo, che il suicidio, dopo tutto quello che il protagonista aveva subìto in guerra, e che noi possiamo al più immaginare, può essere una logica conseguenza. Lo capivo, aveva un senso. Gli dico che io cerco sempre di trovarci un senso.

Poi c’era Esmé, che capivo meno. Per Esmé: con amore e squallore. Esmé è una ragazzina che incontra un soldato, prima che lui parta per la guerra, in una caffetteria. Il soldato scrive racconti. Esmé chiede al soldato di scrivere un racconto per lei, un racconto che però sia squallido. «Squallore. Lo squallore mi interessa enormemente». Esmé si congeda, promettendo al soldato di scrivergli al più presto una lettera, sempre che a lui non dispiaccia, e gli augura di tornare dalla guerra «con tutte le sue facoltà intatte». Il racconto prosegue a Baviera, rivelando un istante di un giorno di qualche settimana dopo la Vittoria. Il narratore passa dalla prima alla terza persona. Il sergente X è in camera sua, nell’appartamento che condivide insieme ad altri soldati americani. Non riesce a dormire, non ci è più riuscito, e la testa gli pulsa come avesse un martello pneumatico conficcato nel cervello. Si accascia sulla scrivania. Insieme ad altre buste che aveva accantonato, trova una lettera: è di Esmé. Di questo la fine non ve la racconto perché sono sicura che lo leggerete. Dico allo scrittore che Esmé mi sfugge, che capisco appena di più il sergente, ma che poi perdo anche lui. Gli chiedo, tenendo a mente che noi siamo la nostra scrittura, se lui pensa che Salinger fosse proprio così, sfuggente, inafferrabile.

Mi risponde: mi dice che lui, quando legge un racconto, non cerca un senso. Non gli piacciono i racconti in cui alla fine si capisce quello che è successo. Del racconto dei pescinabanana, per esempio, l’unica cosa che non lo convince è proprio il finale perché è logico, è un cerchio che si chiude, è finto. Mi dice che i racconti di Salinger non li leggi più volte perché non li capisci, ma perché ti chiedi che cosa contengano di strano e di speciale. Mi dice che in un racconto lui cerca «qualcosa di vero» e quel qualcosa di vero è nell’attimo in cui un personaggio ha una reazione che è tipicamente umana ma che lui, lui lettore, non l’aveva mai colta prima, in nessun altro libro. Mi dice che non significa niente quando dico che qualcosa mi sfugge perché è la vita che sfugge; parecchie cose, nella vita delle persone che più amiamo, ci sfuggono. È così e così dev’essere. E conclude dicendo «amo un racconto se assomiglia alla vita e perciò lo amo se è vero e se nella sua verità qualcosa mi sfugge».

La conversazione s’interrompe più o meno a questo punto. Io, da allora, ho continuato a rileggere Salinger, a dimenticare il senso per cercare quel qualcosa di vero che assomiglia alle persone che amo. A proposito dei racconti e a proposito della vita. E ringrazio lo scrittore, di cui non farò il nome, perché tutto questo, in un certo modo, è ancora qualcosa che voglio continuare a tenere per me.



***
Nove racconti, J. D. Salinger. Einaudi, 2014. Traduzione di Carlo Fruttero.

Commenti

  1. Sono in tanti a cercare un senso "compiuto" in un racconto. Un appiglio razionale, come se fosse una piccola lezione dalla quale imparare qualcosa. Però certi racconti si avvicinano alla poesia e sono solo da ascoltare e non da interpretare; oppure come certe caramelle che piacevano una volta, come quelle al rabarbaro (ne hai mai mangiata una?), che non sono buone in bocca, no. Però lasciano un buon sapore, dopo, e finisce che ne vorresti ancora.

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    1. Il senso, quando c'è, è qualcosa che ti tranquillizza. Leggere senza cercare un senso è destabilizzante, faticoso, ma allo stesso tempo così naturale quanto respirare. Il mio modo di leggere, anche - e soprattutto - dopo questa chiacchierata, è cambiato moltissimo. Quello che tu hai scritto rende perfettamente.

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  2. Riprendo un discorso interrotto. Un articolo bellissimo e molto personale, che ti svela.
    Salinger non lo conosco, ho provato a leggere il famoso Holden ma con fatica. Le tue parole mi hanno incuriosita anche se hai fatto spoiler. Ti perdono. Anzi, mi sarà d'aiuto in caso non dovessi cogliere tutte le sfumature.

    Comunque: Maria, wow!! :))))))))))))))))))))))))

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  3. Rispondo in ritardissimo con un commento chilometrico, ma ho trovato l'articolo molto stimolante. Mi trovo in totale sintonia con il commento di Michele: anche io ho notato che molti cercano nei racconti un appiglio razionale; è come se cercassero a tutti i costi "una rivelazione" da un racconto e molto spesso, la "rivelazione" non è detto che ci sia (o sia così visibile). Sono d'accordo con Michele quando dice che certi racconti meritano di essere ascoltati e non per forza interpretati.
    Mi è capitato tempo fa di assistere a un reading di alcuni racconti di Carver. Avevo portato con me un amico appassionato lettore, soprattutto di romanzi, meno di racconti. Uno dei racconti che abbiamo ascoltato (non ricordo il titolo, né a quale raccolta appartenesse) raccontava di un tizio costretto a condurre una vita di stenti e rinunce nonostante abbia un lavoro che gli garantirebbe una vita dignitosa e senza troppi pensieri dal punto di vista economico. Il suo problema è che presta la maggior parte del proprio denaro ai membri della sua famiglia, una famiglia piuttosto estesa (madre, fratello, una ex moglie, una figlia sposata con figli e un marito nullafacente, e un figlio in Europa per studio), fino a rimanere quasi al verde. E i parenti spendono i soldi prestati dall'uomo riuscendo ad accumulare altri debiti, o a combinando disastri di vario genere che richiedono altri soldi, adesso non ricordo bene, comunque tutto il racconto ruota attorno a quest'uomo che presta i soldi ai familiari e trascorre il suo tempo libero a fare telefonate e a scrivere lettere cercando di avere indietro parte dei soldi prestati in giro. Beh, insomma la situazione economica dell'uomo si fa sempre più drammatica mano a mano che procede il racconto. Non faccio spoiler e non vi dirò come finisce. Comunque al termine del reading, io e il mio amico ci siamo guardati, stavo per dirgli che avevo trovato il racconto meraviglioso, soprattutto per come riusciva a trasmettere parte delle angosce e dei pensieri del protagonista al lettore, e per il piccolo ritratto di società americana che descriveva, e poi ancora... ma il mio amico mi ha anticipato, ha detto: "E quindi?".

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    1. Da questa pseudo-intervista è passato un po' di tempo, io sono una lettrice diversa e ogni giorno mi scopro più presa dai racconti, tanto da preferirli ai romanzi. Ma non riesco a impormi a quel "E quindi?" che mi sento dire anch'io, quando passo una storia che mi sembra meravigliosa, ma che nell'altro non attecchisce. Sulle prime ci rimango anche male ("No, aspetta, è che non hai capito. Vuoi che te lo legga io?"), ma poi mi rendo conto che sto provando a convincere qualcuno a innamorarsi, giocando a innescare un meccanismo che deve venire da sé. I racconti, a spiegarli, diventano anche più tristi delle barzellette quando sei costretto a ripeterne il finale perché nessuno l'ha capito. L’unica cosa che posso fare, che cerco di fare, e riproporli, sempre, provando a spiegare perché piacciono a me e, forse, ma non è detto, possono piacere anche a te. E spiegare perché piacciono a me è molto difficile. A proposito di quel “leggibile” di cui parlavamo, ecco, i racconti non lo sono affatto. Io mi sono allenata, mi sono proprio messa d’impegno, leggendone più e più, per cercare di capire perché quel tipo, preciso, di tensione, mi facesse stare così male, in un modo così tanto piacevole. E poi scoprire che quella tensione la devi prendere così com'è, che devi tenerti le tue domande — quelle che avevi, e quelle che ti sono venute dopo. Devi solo reggere la scossa, e goderne. È difficile. È un processo, un percorso. O almeno, io l’ho vissuto così.

      Creare curiosità, questo sì. Però, anche lì: io i racconti li penso in una dimensione a parte. E penso, come dice anche Carver, che un bravo scrittore di racconti scrive così perché “vive così”, di quel ritmo irregolare, pieno di cose non dette, lasciate e riprese. La cosa più importante, che nient’altro lo è di più, sembra quel pezzo di vita, slegato da un prima e da un dopo. Secondo me anche i lettori di racconti sono un po’ sospesi a metà, forse è questa la chiave.

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    2. Sul fatto che il racconto abbia comunicato qualcosa a me e poco o nulla al mio amico ci può stare. In fondo esiste un gusto personale che ci distingue uno dall'altro. Come dici tu non si può convincere qualcuno ad innamorarsi. Ma l'esclamazione "E quindi?" da parte del mio amico l'ho interpretata più come: questo racconto non dice nulla di "straordinario". Questo trovo sia l'atteggiamento piuttosto comune di chi legge un racconto aspettandosi di trovarvi una "rivelazione". Forse succede perché alcuni lettori, nel leggere i racconti, cercano una struttura affine (e ridotta nello spazio) del romanzo. Ma i racconti sono una dimensione a parte e "vivono" di cose non dette, lasciate, riprese e soltanto evocate come dice Carver. E in più, rispetto al romanzo, i racconti li vedo più slegati da una trama. Chi cerca nel racconto un romanzo in miniatura farà sempre fatica ad apprezzare i racconti, soprattutto i buoni racconti.

      I buoni racconti sono quelli che ti fanno aprire una finestra sulla vita di un personaggio, te la fanno spiare per un po', e poi una volta chiusa la finestra ti lasciano addosso una vibrazione, una tensione, uno stordimento a volte, o la sensazione di aver assorbito il "pezzo di vita" del personaggio nella propria esperienza. Forse a volte i racconti sono meno "leggibili" dei romanzi, lo devo ammettere, ma in tal caso dovremmo ragionare ancora un po' su cosa si intenda "leggibile" quando si parla di narrativa. Nella discussione in merito all'intervista di Carofiglio io avevo ragionato principalmente sul linguaggio di alcuni libri pubblicati (e osannati dalla critica) dove, ahimè, ci si trova ancora davanti a testi scritti in maniera "inutilmente complicata" e spesso "priva di senso". Sul "leggibile" riferito al contenuto, invece, sono in sintonia con la posizione di Cortàzar. E, per quanto riguarda i racconti sono doppiamente in sintonia con la posizione di Cortàzar. :)

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    3. Il limite di quell'articolo è proprio questo: parte, e arriva, a contestare un aggettivo senza definirne il raggio d'azione. Ecco perché si è creata confusione. Pensavo di riuscire a condensare due o tre idee che avevo in testa in un solo pezzo, servendomi di due autori che con le loro dichiarazioni, in contesti e tempi diversi, potevano idealmente essere posizionati ai lati opposti della bilancia. Ma non sono stata chiara, o non me la sono giocata bene. Contenuti e forma sono due cose diverse e, appunto, meritavano due considerazioni distinte.

      Mi trovo spesso a parlare con i non lettori di racconti e in effetti mi sono accorta che esistono due problemi: un rifiuto e un bisogno, che sono collegati. Il rifiuto è "e quindi?" del tuo amico, è il "ma non succede niente qui", è l'occhio che non si sforza di vedere più in là da quello che guarda. Su questo si può lavorare. L'altra questione è la necessità di una trama, lineare e rassicurante, qualcosa che inizia, procede e si conclude; il bisogno di avere dei personaggi fidati, di conoscerli, imparando i loro difetti e i loro pregi, riuscendo così a immedesimarsi al punto da prevederne i comportamenti. È vedere che tutto ha un senso, e che il cerchio si chiude. A questa mi arrendo. Perché capisco che è proprio un modo diverso di respirare.

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    4. Io ho le tue stesse sensazioni quando parlo con i non lettori di racconti. Hai ragione quando dici che è un modo diverso di respirare. Io la vedo così: ci sono lettori che preferiscono il caso in cui la trama ha un ruolo centrale e i personaggi si muovono in funzione di essa, nell'altro si è disposti ad accettare che i personaggi abbiano una vita propria e, con le loro azioni, generino una trama. In sostanza nel primo caso ha un ruolo centrale la storia, con tutta la sua rassicurante linearità. Nel secondo caso sono i personaggi a dettare le regole, e non è detto che ne esca fuori una struttura lineare. Io preferisco il secondo caso, mi sembra quello che si avvicina di più alla "vita".

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    5. La penso esattamente come te. Ecco perché dicevo dei lettori di racconti, che anche loro forse vivono un po' di questo ritmo irregolare, perché io vedo molta più vita (degli altri - mia, soprattutto) quando ho davanti un racconto.

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  4. Ciao Maria! Per quanto riguarda in racconti in generale, indipendentemente dall'autore, penso di essermi ormai abituata a questa sorta di "incompiutezza". Mi pare una caratteristica propria, e forse la più importante, di questa forma letteraria. Come hai detto tu, il non senso che troviamo nei racconti e il loro essere spesso "irrisolti", li rende più veri, più simili alla vita rispetto a narrazioni più lunghe. E' quello che li rende più ostici al lettore, ma anche capaci di generare cosi tante riflessioni!

    Passando invece ai due racconti che hai menzionato in questo post, li ho letti recentemente e volevo lasciarti quelle che sono state le mie impressioni. In "Un giorno ideale per i pescibanana" penso che l'elemento di stridore e sorpresa venga dal fatto che per tutto il racconto percepiamo (perchè questo ci induce a fare Salinger) il giovane soldato come un pericolo per gli altri: i genitori di Muriel sono preoccupati che il marito possa farle qualcosa di male; nel momento in cui lui gioca con la bambina sulla spiaggia temiamo che possa diventare violento con lei e fare qualcosa di irreparabile, specialmente in acqua; anche alla fine, quando prende la pistola nella camera in cui Muriel dorme, il mio primo pensiero da lettrice è stato che lui volesse uccidere lei. Invece, lui era effettivamente un pericolo prima di tutto per se stesso e il suicidio che fa terminare il racconto ci fa capire come il suo dolore e la sua rabbia (anche questi irrisolti), avevano come oggetto esclusivamente se stesso. Ecco, per me l'amaro in questo racconto sta proprio qui: in questo personaggio che viene considerato un pericolo da coloro che gli sono accanto (a parte la bambina) e che quindi cercano di distanziarlo, o sono molto superficiali (nel caso di Muriel), invece di cercare di aiutarlo.

    Per quanto riguarda Esmé anche a me sfugge la giusta chiave di lettura, ma penso proprio perchè Salinger voglia lasciarci con il dubbio se il giovane sargente sia veramente impazzito in guerra e abbia perso la sua lucidità mentale per sempre, o se questo sia solo parte del racconto "squallido" che sta scrivendo per Esmé come regalo di nozze, o entrambe le cose...

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    1. Una disamina molto interessante, Flavia. Sui racconti, ancor più che sui romanzi, il confronto tra lettori può dare molte soddisfazioni (soprattutto rispetto a Salinger, che con intelligenza e arguzia ha costruito dialoghi perfetti. Mai una parola fuori posto, mai una in più dello stretto necessario. C'è scritto tutto, eppure è sempre così sfuggente).

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