Perché prima o poi dovrò farci i conti, fosse solo per esorcizzare il momento in cui abbandonai le lettere e scelsi i numeri.
Me lo ricordo bene: elementari, ora d’italiano, tema. Non mi viene in mente il titolo, ma non credo sia importante. Io penso di aver scritto un capolavoro, ero proprio fiera di me. Lei, l’insegnante, dopo una rapida lettura accenna una smorfia di disappunto e si esprime: «Che cosa hai scritto?»
Non vi racconto l’episodio a testimonianza di un banale rancore infantile, anzi: tutti abbiamo fallito un compito, non è questo il punto. Il punto è che io inizio a spiegare il mio tema, lei mi guarda, alternando perplessità e stupore. Io continuo imperturbabile la mia spiegazione e lei aggiunge: «Però quello che hai appena detto non è proprio quello che hai scritto».
Ecco: crack! L’ho avvertito perfettamente. Non era una semplice questione di congiuntivi o di punteggiatura, mi seguite?
Ecco: crack! L’ho avvertito perfettamente. Non era una semplice questione di congiuntivi o di punteggiatura, mi seguite?
A mio modo, così come i bambini provano a trarre insegnamenti dai propri errori, piazzai nell’emisfero sinistro una specie di ammonizione: A parlare sì, ma le parole, quelle scritte, quelle mie, la gente non è che le capisce proprio bene bene.
Così sono andata avanti per parecchi anni, tra equivoci più o meno rilevanti, parlando sempre molto e scrivendo sempre molto poco. In questi ultimi mesi, però, senza un motivo apparente, ho sentito il bisogno di rivedere alcuni atteggiamenti sbagliati, figli di vecchie esperienze, anche soltanto per un mutamento effettivo delle condizioni.
E se le parole, quelle scritte, quelle mie, la gente non le capisce bene non è così importante. Ho capito quanto può essere dannoso nascondersi dietro complessi e paure latenti. Ho bisogno, ora come ora, di fare delle cose anche solo per il gusto di farle. Così, senza pretese.
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