Il dramma di scrivere d’amore

Se è vero che ogni storia è un po’ una storia d’amore, è anche vero che di storie d’amore efficaci non se ne leggono spesso. Perché è così difficile scrivere d’amore? Quali sono le trappole da evitare affinché una storia d’amore non diventi un stereotipo?


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È passato parecchio tempo da quando leggevo per la prima volta Cime tempestose. Avevo quindici anni di meno ma ricordo che mi sembrò straordinario il modo in cui Catherine si riferiva a Heathcliff perché faceva eccezione con tutto quello che avevo conosciuto fino a quel momento. Cime tempestose è l’unico romanzo scritto da Emily Brontë, pubblicato sotto lo pseudonimo di Ellis Bell nel 1847, lo stesso anno in cui uscì Jane Eyre della sorella Charlotte, e fu ritenuto scandaloso perché privo di un fine morale. Secondo l’Examiner, un settimanale inglese dell’Ottocento, era «uno strano libro [...] violento, confuso, incoerente e improbabile». La stessa Charlotte giudicò il romanzo della sorella minore come una storia di “perverted passion and passionate perversity”. In realtà, come sottolineò Marco Praz: «Il punto di vista di Emily Brontë non è immorale, ma premorale. Sicché il conflitto a cui assistiamo nel suo libro non è quello consueto dei romanzi vittoriani, tra bene e male; è piuttosto un contrasto tra simile e dissimile». Solo dopo la morte di Emily, il romanzo ottenne il successo che meritava. Da allora, diversi critici si sono interrogati sulla natura della relazione tra Catherine e Heathcliff e la capacità di tenere attiva la discussione dopo quasi due secoli fa di Cime tempestose un grande classico.

Scrivere d’amore è un lavoro impegnativo perché consiste nel dare alla sostanza di un sentimento ordinario (nel senso di comune, universalmente riconosciuto) una forma inconsueta, fatta di immagini originali ed espressioni inaspettate.

Di solito sono due le circostanze che fanno di un racconto d’amore una spiacevole lettura. La prima: l’autore non riesce a tenere il giusto distacco durante la narrazione e veicola le azioni dei personaggi e lo sviluppo degli eventi per raccontare la sua storia. La seconda: convinto che provocare una reazione emotiva sia l’obiettivo da raggiungere, l’autore utilizza stereotipi narrativi o linguistici per meglio connettersi alla sensibilità del lettore. Ma un errore non esclude l’altro; nello scenario peggiore, lo scrittore scrive di sé sfruttando gli stereotipi.

Come non scrivere d’amore

Vivere per raccontarla

Nel 2005, un istituto di ricerca neozelandese ha dimostrato che scrivere fa bene: la pressione arteriosa si abbassa, le funzioni epatiche migliorano e le ferite postoperatorie si rimarginano più in fretta. Sembra che bastino 20 minuti al giorno: dopo undici giorni passati a scrivere, il 76% del campione oggetto dell’esperimento era guarito. È una terapia abbastanza collaudata che attuavamo già da adolescenti, quando in modo inconsapevole riportavamo i nostri pensieri sul diario; scrivere favorisce l’elaborazione delle esperienze negative e la riappropriazione di un giusto senso delle proporzioni tra percepito e reale. Stabilito che scrivere ci fa bene, la domanda che dobbiamo porci è quanto la nostra scrittura faccia bene alla letteratura, una questione da affrontare se vogliamo rendere pubblico quello che abbiamo scritto: quando scegliamo di pubblicare, o almeno ci proviamo, dovremmo farlo con la responsabilità che ci fa intendere di poter dare un contributo (più o meno importante) a quella storia infinita che è la vita intesa in termini letterari.

Scriverla per pubblicarla

L’errore che si commette, certe volte anche in buona fede, è confondere il concetto di verità con quello di verosimiglianza e pensare che scrivere con sentimento sia un sforzo sufficiente affinché il lettore legga con sentimento. Purtroppo, o per fortuna, non è così: la comunicazione è un processo complesso che non si riduce a un semplice trasferimento di dati. Nella raccolta Il mestiere di scrivere, Raymond Carver ha raccontato che la maggior parte delle storie che scriveva non erano accadute davvero e, anche se alcune prendevano spunto da certe situazioni della sua vita, nessuna di esse poteva definirsi autobiografica. Questa non è una regola generale ma un buon esempio da seguire e anche un incoraggiamento: scrivere una storia efficace senza averla vissuta è possibile, bisogna solo imparare a farlo.

Come scriviamo d’amore

Daniel Jones è un editor del New York Times, curatore di Modern Love, una rubrica che da una decina d’anni esplora le gioie e le tribolazioni dell’amore. Da quando ha cominciato ad occuparsi dell’argomento, Jones trascorre gran parte del suo tempo a leggere “people’s turbulent emotional experiences”. Così, in un articolo del 2005 dal titolo How we write about love, decide di rifletterci in modo più serio, provando a capire quali sono, se ci sono, atteggiamenti simili tra chi scrive storie d’amore.

La prima conclusione di Jones è abbastanza intuitiva: come scriviamo d’amore dipende dalla nostra età. I giovani scrivono con un misto di ansia e di speranza mentre le storie degli scrittori più adulti sottendono domande del tipo: “È questo che volevo per me?”. Altro dato da considerare: la differenza tra scrittori e scrittrici. Le donne e gli uomini possono vivere l’amore in modo simile, ma ne scrivono ancora da due punti di vista differenti (parliamo di impressioni generali, teniamone conto). In media, le storie degli uomini sono piene di rimpianto e di nostalgia, echi di un desiderio che rimanda a una precedente relazione o a un’opportunità che non si è concretizzata. Le donne sono più inclini a scrivere con irrequietezza: vogliono capire l’amore più che descriverlo, concepirlo in senso assoluto.

L’articolo di Jones è interessante perché estende l’analisi al repertorio di parole utilizzato da chi scrive d’amore.
Quando alcune persone scrivono d’amore non riescono a trovare le parole giuste per catturare l’intensità dei loro sentimenti, così contano su una famiglia di termini che sarebbe meglio evitare. Questi includono (ma non solo): incredibile, splendido, devastante, cotto, colpito, anima gemella ed elettrizzante. (1)
Ancora: il cuore “batte” o più spesso “si scioglie”, “ricorderò sempre” se la gioca con “non dimenticherò mai” e c’è un avverbio preferito da tutti che è literally, letteralmente. Messe insieme, le cattive abitudini possono creare una combinazione come questa: «Il nostro appuntamento fu letteralmente elettrizzante. Il cuore mi batteva forte. Non lo dimenticherò mai.». Le scrittrici più coraggiose si azzardano a chiudere le storie d’amore con “lettore, l’ho sposato” (espressione che Charlotte Brontë affidò a Jane Eyre e che consiglio di considerare patrimonio esclusivo dei coniugi Rochester).

Fermarsi a riflettere sulle insidie dello stereotipo ci aiuta a capire perché alcune narrazioni sono più riuscite di altre. In letteratura il concetto di luogo comune non è utilizzato in senso dispregiativo ma individua un elemento narrativo ricorrente, un topos, in un genere o in un determinato periodo storico. L’obiettivo, infatti, non è tanto scrivere quello che nessuno ha mai scritto ma utilizzare uno schema consolidato senza farlo apparire scontato.

Come scrivere d’amore

«Scrivere d’amore dovrebbe essere come innamorarsi». Secondo Daniel Jones, una valida scrittura d’amore dovrebbe serbare le stesse virtù che definiscono un buon rapporto, come l’onestà, la curiosità e l’umorismo. La cattiva scrittura, al contrario, soffre dei difetti che definiscono un cattivo rapporto, per esempio la disonestà e l’egoismo. Ma queste massime poco ci aiutano. Nel saggio Come funzionano i romanzi (2), James Wood spiega che una delle maggiori difficoltà d’impostare una buona storia nasce dal fatto che la scrittura agisce su tre livelli:
C’è il linguaggio, lo stile, la dotazione percettiva ecc. dell’autore; c’è il presunto linguaggio, stile, dotazione percettiva ecc. del personaggio; e c’è quello che potremmo chiamare il linguaggio del mondo: un linguaggio che la narrativa si trova in eredità prima di giungere a trasformarlo in stile romanzesco, il linguaggio del discorso quotidiano, dei giornali, degli uffici, della pubblicità, della blogosfera e degli sms.
Il compito dello scrittore è soddisfare questa triplice esigenza: conciliare la propria sensibilità con quella del personaggio, prestando l’orecchio alla lingua che parla il mondo. Più facile a dirsi che a scriversi, è vero, ma l’obiettivo di questo articolo non era mettere a punto la ricetta di una perfetta storia d’amore perché il rischio d’inciampare negli stessi cliché che abbiamo criticato è molto alto. Chi scrive d’amore si trova a lavorare con una materia familiare eppure estranea, fatta di quel mistero che fa di certe situazioni delle esperienze di vita, perciò capire quali sono gli errori più comuni è già un buon punto di partenza. Fu David Foster Wallace a dire che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi ed è con questa realtà che dobbiamo fare i conti prima di cominciare a parlare d’amore, con i nostri fantasmi e con quelli del passato. Durante un laboratorio di scrittura creativa condotto da Gabriel García Márquez (3), due studenti si confrontavano sul miglior finale da dare alla storia che stavano sviluppando. La ragazza disse: «Ho anche pensato alla possibilità di una scena di morte». Il ragazzo rispose: «Amore che finisce con una scena di morte? Impossibile. È Romeo e Giulietta».

Un bacio e poi altri cento: un esempio

So che non è corretto isolare delle citazioni dal contesto e giudicarle come se fossero elementi a sé stanti, ma è uno dei modi che abbiamo per distinguere ciò che non funziona da ciò che funziona perciò facciamo che va bene lo stesso.

Un primo bacio
Babi va sul bagnasciuga. Piccole onde orlate d’argento si rompono prima di bagnare le sue All star blu. Un’onda più capricciosa delle altre prova a prenderla. Babi indietreggia veloce sfuggendole. Finisce scontro Step. Le sue braccia forti la accolgono sicure. Lei non si sottrae. In quella luce notturna appare il suo sorriso. Gli occhi azzurri pieni d’amore lo fissano divertiti. Lui le si avvicina e lentamente, abbracciandola, la bacia. Labbra morbide e calde, fresche e salate, accarezzate dal vento del mare.
Un primo bacio scritto molto meglio
Le grida dei ragazzi, le risate, si fanno più vicine. Lei mi stringe con una forza nuova. La sua voce sussurrante, rotta: «Di’, mi ami? Mi ami davvero? Mi vuoi? Perché non dici niente?». E io non la conosco così mutata: quel bacio imprevedibile, troppo esperto, quell’ardore negli occhi, e già dentro di me qualcosa come una reticenza, un presentimento. I suoi capelli vivi sul mio viso, luminosi nella notte, il suo odore con quello del mare dentro, del mare che striscia sui ciottoli freddi, fin quasi ai nostri piedi.
Il primo bacio è di Federico Moccia, dal libro Tre metri sopra il cielo. Il primo bacio scritto molto meglio è tratto da Ferito a morte di Raffaele La Capria. Ho scelto due autori italiani e la stessa ambientazione per rendere il confronto più equo. La voce narrante è differente (Moccia sceglie un narratore esterno, La Capria affida il racconto al protagonista optando per un io narrante) ma la prospettiva da cui si decide di raccontare la storia è una delle scelte fondamentali che si compie quando si scrive, quindi giudicabile. La distanza tra un passo e l’altro è evidente ed è sia una questione di forma che di sostanza: le braccia forti che accolgono, le onde capricciose, gli occhi azzurri e le labbra salate sono formule inflazionate, così sterili da risultare fastidiose. E poi nel primo caso non c’è gerarchia di significati, non c’è gioco sintattico, nessun esperimento linguistico: non c’è alcun tentativo di portare il testo oltre l’ordinario. Il mare di Moccia non è il mare dentro di La Capria.

Per evitare di cadere in simili tentazioni, può essere utile la lettura del Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert. L’idea di scrivere una raccolta del genere gli venne in mente a nove anni perché in quel periodo c’era una conoscente di suo padre che andava a trovarlo e parlava sempre per frasi fatte. Nel libro si trovano esempi come:
BACIARE Dolce furto. Il bacio “si depone” su: la fronte della fanciulla, la guancia di una mamma, la mano di una bella donna, il collo di un bambino, le labbra di un’amante.
Sulla trascrizione della “stupidità” Flaubert lavorò per tutta la vita, fino all’incompiuto Bouvard e Pécuchet. Nel Dizionario ci sono espressioni che vanno ricondotte alla dimensione spaziotemporale dello scrittore, ma molti di quei luoghi comuni li abbiamo ereditati anche noi.


***
(1) L’elenco di termini in lingua originale è «amazing, gorgeous, devastating, crushed, smitten, soul mate and electrifying». To have a crush è “avere una cotta”. Smitted sarebbe colpito nel senso di “impressionato”.

(2) Come funzionano i romanzi di James Wood è fuori catalogo (ed è un peccato).

(3) L’episodio è tratto da Come si scrive un racconto, una selezione di tredici seminari di Gabriel García Márquez (fuori catalogo, doppio peccato).


Commenti

  1. Ma non ho capito, le labbra sono calde o fresche? :)

    E poi, il dizionario dei luoghi comuni è troppo bello!

    Articolo ottimo e mi chiedo dove tu vada a raccattare tutte le informazioni che citi. L'amore è effettivamente una cosa difficile da raccontare e tra le cose più facile da raccontare con cliché, forse proprio perché se ne parla e se ne è parlato così tanto dell'amore che si è standardizzato in un ideale di figure e scenari idilliaci e/o stereotipati e poco realistici.

    "Cime tempestose" è qualcosa di impetuoso e inarrestabile. Capisco chi non lo ama, ma io lo amo follemente. Perché va oltre a tutto e con una forza pazzesca. I sentimenti lì sono scariche.

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    1. Che sia un ossimoro concepito male? :)
      Cime tempestose lo rileggerò, devo solo trovare la giusta predisposizione mentale per tuffarmici come merita.

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