Quanto vale la cultura?


Vita liquida di Zygmunt Bauman è un libro del 2005 che sembra scritto ieri. L’idea di fondo è che: «una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure». Stavo leggendo il capitolo Il consumatore nell’età liquido-moderna e ho cominciato a riflettere su come e quanto lo stato della società influisca sulla cultura.

Bauman non voleva abituarsi al pensiero che l’importanza di un prodotto culturale si riducesse a un ipotetico valore di scambio, anche perché il valore della cultura è difficile da quantificare. Senza entrare troppo nel dettaglio, considerando un prodotto di serie – un’automobile, per esempio – possiamo calcolare l’impatto dei costi fissi e dei costi variabili per determinare un valore (e quindi un prezzo) in modo abbastanza obiettivo. Nel caso di una prestazione intellettuale, un’opera d’arte, un canzone, un testo letterario, come procediamo?

L’economia della cultura è giovanissima. Negli anni 60 qualche esperto comincia a porsi le prime domande sul tema (nel 1966 William J. Baumol e William G. Bowen pubblicano il libro dal titolo Performing arts: the economic dilemma) ma la questione non è di facile risoluzione, soprattutto perché il concetto di cultura è dinamico. Bauman riprende l’argomento nel capitolo La cultura: ribelle, ingestibile specificando che il termine nacque per esprimere un’idea di gestione collettiva del pensiero, un modo uniformante di vivere in comunità che si tramandava da generazione a generazione. Con lo smistamento delle classi sociali, la ridefinizione delle priorità e la nuova importanza che assume l’individuo, la cultura è diventata un elemento distintivo, un’occasione di ricerca e sperimentazione. 
 «La cultura punta, se così si può dire, “più in alto” di qualunque cosa passi, in un determinato momento, per realtà».
Ma le leggi che regolano il mercato dei consumi s’impongono sempre più spesso nel settore della cultura, come nota anche Bauman: «è ormai sui clienti previsti – sul loro numero e sulla loro disponibilità di denaro – che si decide il destino delle creazioni culturali».

Il ciclo di vita di un prodotto, qualsiasi prodotto, comincia con la fase di lancio. Consideriamo l’oggetto-libro: il libro viene lanciato e “spinto” sul mercato secondo alcune strategie di marketing. Il marketing è una delle creature più affascinanti dell’economia, una specie di genio della lampada più furbo e più aggressivo. Come agisce è presto detto: fa leva su bisogni impliciti, espliciti e latenti. Il bisogno è uno stato di privazione e la sua soddisfazione estingue ogni necessità (ho fame = mangio = non ho più fame). Quando agisce è meno chiaro, per questo diventa un fenomeno interessante. Per adeguarsi alla liquidità dei tempi, gli uomini di marketing hanno capito che dovevano giocare d’anticipo, andando a raggiungere sentimenti più sommersi e redditizi: i desideri.

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Esempio pratico. La casa editrice Mondadori pubblica nel 2017 Il diario segreto di Laura Palmer di Jennifer Lynch, un libro scritto nel 1990. Laura Palmer è la celebre protagonista della più celebre Twin Peaks, una serie televisiva ideata da David Lynch e Mark Frost e trasmessa dal 1990 al 1991. Il libro della Lynch torna in libreria perché il 6 ottobre 2014 è stata annunciata una nuova stagione di Twin Peaks che andrà in onda il 21 maggio. Perché trasmettere, nel 2017, un contenuto degli anni '90? Perché le indagini di mercato registrano un nuovo interesse per il format della serie televisiva, perché sempre più telespettatori scelgono il dramma e il mistero (vedi il successo di True detective) e preferiscono le ambientazioni nostalgiche, evocative e piene di citazioni (vedi il successo di Stranger Things). Tutto questo è Twin Peaks. E se cominciate a guardarvi intorno troverete già biografie, testi e saggi su e di David Lynch. Il marketing opera prima, dopo e durante.

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Desiderio e bisogno definiscono due stati differenti, ecco perché quando vogliamo acquistare con coscienza ci poniamo, o dovremmo porci, domande del tipo: «Desidero quest’oggetto, ma ne ho veramente bisogno?». La realizzazione di un desiderio, infatti, si traduce nella creazione di un altro desiderio, più nuovo e più strutturato (spesso più costoso). È un impulso che può essere stimolato a diversi livelli, indirizzato in più fantasiose direzioni. Ma non sarà mai pienamente soddisfatto: l’individuo ha bisogno di desiderare.
«La società dei consumi riesce a rendere permanente la non-soddisfazione».
Dopo il lancio, il prodotto viene diffuso presso il pubblico e avanza nella fase di maturità perdendo attrattiva. È in questo stadio che il prodotto di cultura finisce per assomigliare a un bene di serie. Il problema che interessa il prodotto culturale è l’utilità percepita; ridotto ai minimi termini, il valore della cultura è una questione di “percezione sociale". Dato che viviamo in un’epoca in cui non abbiamo bisogno di niente e desideriamo tutto, abbiamo l’impressione che ogni bene/servizio si consumi più velocemente. In realtà un libro non dovrebbe smettere di essere attraente perché potenzialmente infinita è la sua utilità. Eppure la vita media di un libro sembra ridursi anno dopo anno. Questo discorso sembra interessare meno i classici, forse perché come diceva Calvino «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Ma quanti libri pubblicati, in Italia e non solo, possono essere considerati classici? Per tutti gli altri si aprono due scenari: il declino (che porterà a un fuori catalogo) o il rilancio, una nuova sferzata di energia collegata a qualche intuizione favorevole (come il caso del libro di Jenny Lynch).
 «La sindrome consumista (...) ha enormemente abbreviato il lasso di tempo che separa non solo il volere qualcosa dall’ottenerlo ma anche la nascita del volere dalla sua cessazione».
È la conseguenza più drammatica della società liquido-moderna: ci sentiamo insicuri, sommari ed evanescenti. I libri che acquistiamo e tutti i prodotti culturali di cui facciamo uso diventano certificati di identità, come un paio di scarpe o un vestito nuovo.  Abbiamo paura di scomparire e allora proviamo a delimitare i nostri contorni con arrangiamenti di fortuna; io sono ciò che vedo, ciò che leggo, ciò che ho ascolto; tutte le cose che posseggo mi rappresentano e mi definiscono.

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Se il problema è evidente, la soluzione è meno ovvia. Quel che Bauman suggerisce è “distanza” e “consapevolezza”, due tra gli strumenti più importanti con i quali difendersi dalla soddisfazione transitoria che produce il mercato dei consumi. E questo vale per tutte le figure coinvolte nel processo di gestione della cultura. In un’intervista che ho condotto per il sito Goodbook, ho chiesto a Daniele di Gennaro, editore della casa editrice romana minimum fax, com’è possibile far convergere esigenze di mercato con valori e aspirazioni. La risposta che ha dato è che: «Il segreto è non provare a farle convergere, se no il declino qualitativo verso il basso è inevitabile. (...) L’intraprendenza da imprenditore della cultura si gioca sul come proteggi quella che per te è una proposta di qualità». In un settore dove l’offerta funziona indipendentemente dalla domanda e si fanno spazio libri a breve e brevissima scadenza, puntare “più in alto” può essere una strategia vincente.
«Subordinare la creatività culturale ai criteri di mercato significa chiedere alle creazioni culturali di rispettare il prerequisito di quelli che un tempo erano onesti prodotti di consumo: e cioè legittimarsi in termini di valore di mercato (valore attuale di mercato, per l’esattezza) o perire».
Il lettore, seguendo la stessa direzione, dovrebbe provare a diventare un elemento meno passivo del sistema economico, non accontentandosi soltanto di ciò che gli viene proposto. Cercando di costruire per sé un’identità culturale che assomigli sempre di più alla somma delle singole scelte libere.



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Vita liquida, Zygmunt Bauman. Editori Laterza, 2007 (terza edizione). Traduzione di Marco Cupellaro.

Commenti

  1. Bauman ha identificato molto bene il problema; sulla soluzione che indica, invece, ho davvero tante perplessità. Un po' come dire: la povertà è causa di un mare di problemi, dalla mortalità infantile alle guerre. Come si risolve? Essendo ricchi. Jacques de La Palice, di lassù, applaude convinto.
    Personalmente non credo che esista una "soluzione" perché cultura e intrattenimento - prodotti culturali e prodotti di consumo veloce - sono due facce della stessa medaglia: non puoi separarne i destini. Farlo, oltretutto, è un'operazione rischiosa, perché va a stabilire in una certa misura cosa sia "giusto" e cosa no: sappiamo bene quanto pericolo ci sia nell'arrogarsi questo diritto.

    Dispiace invece che un post interessante non abbia nemmeno un commento.

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  2. Bauman era un intellettuale e prendere le distanze è un atteggiamento di categoria. In realtà, come hai detto anche tu, una vera soluzione non c'è. Anche ciò che ho detto io è abbastanza aleatorio: esistono davvero delle scelte libere? Qualcuno avrebbe da ridire anche sul concetto di scelta. Siamo troppo compromessi per tirarcene fuori, e lo dico senza drammi: ci siamo dentro, ci siamo nati, cerchiamo di restare a galla come meglio ci viene. Però credo molto nella consapevolezza, una coscienza che possiamo costruire soltanto ponendoci delle domande, e il libro di Bauman diventa un'occasione importante. Anche solo i titoli dei capitoli sono utili in questo senso («L'individuo sotto assedio» oppure «Rifugiarsi nel vaso di Pandora» e ancora «Imparare a camminare sulle sabbie mobili»). E il post interessante che non ha commenti si risponde da sé: l'utilità percepita non è all'altezza dell'impegno e il prodotto che non rispetta le leggi di mercato è destinato a "perire". Anche qui, non c'è dramma.

    Ma in realtà un commento c'è quindi non è tutto così scontato.
    Bauman, contro ogni previsione, teorizza un lieto fine: «Noi essere umani, armati del linguaggio, di quella strana particella, 'no', e di quel tempo futuro che ci conduce oltre l'immediatezza di ciò che è dato (...) non possiamo accontentarci di 'ciò che è'». Alla fine cita anche la speranza, l'avresti mai detto?

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  3. "Ci sentiamo insicuri, sommari ed evanescenti. I libri che acquistiamo e tutti i prodotti culturali di cui facciamo uso diventano certificati di identità, come un paio di scarpe o un vestito nuovo".
    Forse, il fatto che un bel post come questo abbia pochi commenti, è il risultato delle nostre insicurrezze e del nostro sentirci poco adeguati rispetto ad un mondo che corre veloce. I miei dubbi su cosa sia la "cultura" e chi possa definirsi un operatore culturale (sempre se quest'espressione abbia un senso), le conosci già e avrei difficoltà a racchiuderle in un pensiero di senso compiuto. A dimostrazione di quanto il mercato insinui dubbi, anche quando penso di aver capito chi sono e quali siano le regole del gioco.
    Questo è uno dei libri che vorrei proporre al mio gruppo di lettura. Lo so, non è un libro da gruppo di lettura ma non si può sempre leggere Murakami.

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    1. Perché non è "twittabile", Barbara!
      Proporre un libro del genere è una scelta rischiosa ma interessante, diventa ancora più efficace se riesce a creare occasioni di confronto.

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