Il silenzio perduto del lettore

Qualche tempo fa Chiara Valerio presentò un libro di Giusy Marchetta dal titolo Lettori si cresce. È la storia di un ragazzino, Polito, e del suo rapporto un po' complicato con la lettura. La discussione seguì diverse direzioni ma tutte tese a rispondere alla domanda: chi è il lettore? Chiara Valerio disse qualcosa del genere: «Il lettore è innanzitutto una persona di cui mi fido perché so che riesce a stare da solo per un periodo di tempo abbastanza lungo. Mi fido perché so che è una persona che non ha paura del silenzio». A sentir parlare di fiducia mi venne in mente un passaggio del libro L'insostenibile leggerezza dell'essere, quello in cui Tomáš fissa un appuntamento tra Tereza e uno sconosciuto. Tomáš voleva dimostrare a Tereza che la sessualità e l'amore possono essere due cose diverse e che anche lei aveva degli istinti che non avrebbe potuto controllare per sempre. Quando Tereza raggiunge l'uomo nel suo quartiere alla periferia di Praga, l'appartamento si rivela un'unica stanza stretta e lunga, da un lato c'è un divano e dall'altro una libreria.

Quest'uomo non aveva nemmeno un tavolo come si deve, però aveva centinaia di libri. Tereza ne era contenta e l'angoscia con la quale era andata lì si placò leggermente. Fin dall'infanzia considerava il libro come un segno di fratellanza segreta. Un uomo che aveva in casa una biblioteca come quella non poteva farle del male.
Tereza si fida di quel lettore e la storia prosegue come Tomáš aveva predetto.

Tralasciando i miti da romanzo, devo ammettere che penso spesso alle parole della Valerio, alla sua definizione così semplice e centrata. Quello che mi chiedo è se possiamo riconoscerci in quel profilo allo stato attuale delle cose. Da quando siamo tutti connessi a una rete di pulsazioni digitali, abbiamo perso ogni contatto con il nostro io più profondo. È un argomento che ha cercato di sviluppare lo scrittore Don DeLillo in diversi romanzi. In Zero K, per esempio, ci suggerisce che: «la vita contemporanea è così incorporea che ci si può infilare un dito dentro». E se non riusciamo più a vederci per quello che siamo allora tanto vale diventare quello che condividiamo. Ciò che facciamo, in maniera più o meno inconscia, è costruire un'immagine fatta da piccole rivelazioni quotidiane e cercare d'imprimerla negli occhi degli altri. Mostriamo solo una parte di noi stessi, quella che pensiamo sia la migliore, e misuriamo tutta la nostra esistenza sulle impressioni e sugli apprezzamenti dei nostri "amici", apprezzamenti che però nascono da una rappresentazione parziale e fittizia. È un paradosso al quale ci assoggettiamo ogni minuto di ogni giorno.

Anche i libri sono diventati vittime di questo sistema. Noi siamo i lettori che gli altri pensano che noi siamo, in base all'idea che si sono fatti su cosa leggiamo, come lo leggiamo e quanto lo leggiamo. Siamo sempre più pronti a condividere citazioni, scatti e opinioni, e non ci rendiamo conto che stiamo perdendo un po' alla volta la facoltà di straniamento che è propria della lettura, quella capacità di uscire da sé per entrare nella storia di un altro. Non ci permettiamo più di perdere la cognizione del tempo perché l'attimo è tutto il tempo che abbiamo. Ma se la regola è show the world who you are, cosa ci resta? La solitudine è una condizione sempre più associata alla malinconia, a volte anche alla tristezza, ma c'è una piccola e sostanziale differenza tra isolarsi ed essere soli. La verità è che quello che ci spaventa di più è il silenzio che lo stato di solitudine richiede. Siamo così abituati a vivere con un brusio di sottofondo, il "rumore del mondo", che il silenzio ci appare una dimensione intollerabile, troppo oscura e insondabile. Eppure qualche volta quello che ci fa paura è solo un'ombra di qualcosa che a guardarla bene si rivela meno orribile di come immaginavamo che fosse.

Quello a cui penso spesso è che tutti dovremmo fare i conti con quello che sta succedendo. Noi lettori, soprattutto, perché in gioco c'è molto di quello che siamo. Coltiviamo la nostra solitudine, prendiamoci una pausa e lasciamo che il mondo continui a urlare dietro la nostra porta. Dimostriamo che di gente come noi ci si può ancora fidare.
La solitudine è indipendenza: l'avevo desiderata e me l'ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.


*** 
La citazione è tratta dal romanzo Il lupo della steppa di Hermann Hesse.

Commenti

  1. (riflessione che c'entra marginalmente)

    "Anche i libri sono diventati vittime di questo sistema. Noi siamo i lettori che gli altri pensano che noi siamo, in base all'idea che si sono fatti su cosa leggiamo, come lo leggiamo e quanto lo leggiamo. Siamo sempre più pronti a condividere citazioni, scatti e opinioni"

    Giuseppe Pontiggia, nelle sue splendide conversazioni radiofoniche sulla scrittura, parla dell'euforia ingiustificata che si cela dietro termini quali creativo, creatività, etc. Su come certe espressioni si focalizzino vacuamente sul processo, e non sul risultato (se quel che credi è buono o non buono, questo conta).

    Un qualcosa di simile succede per la scrittura. Tutti sono scrittori e soprattutto SI DICHIARANO scrittori, essere scrittori è qualcosa da esibire/condividere (se hai frequentato qualche gruppo FB dedicato a letture e/o scrittura, sai che quelli che si presentano col classico "Sono un autore, e..." sono a centinaia). Qualcosa da esibire a prescindere da cosa tu abbia effettivamente scritto, dalla qualità di ciò che hai creato.

    Lo stesso succede con la lettura. "Siamo sempre più pronti a condividere citazioni, scatti e opinioni". Verissimo. E c'è la classica componente narcisistica. Sembra quasi che dichiararsi lettori, sciorinare i propri comportamenti da lettore - come sistemiamo la biblioteca, dove leggiamo, qual è il libro che ci siamo portati sulla spiaggia - sia diventato quasi più importante del leggere stesso (e, ancora di più, del leggere roba buona).

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    1. Riflessione marginale neanche tanto perché il sottotesto è proprio quello che hai scritto tu e quindi ti ringrazio per l'intervento. Dichiararsi (lettore, scrittore, e ogni altro -ore immaginabile) è diventato il mezzo col quale ci si appropria di uno stato. "Io mostro dunque sono", e qua viene fuori anche un gioco di parole molto interessante.

      A me spaventa il paradosso di cui parlavo nell'articolo. Io mi dichiaro un certo tipo di lettore, ma non finisce lì: se gli altri crederanno all'immagine che io ho costruito – aggiungendo, scartando e componendo pezzi di me –, solo allora sentirò di esserlo davvero. Questo è assurdo. Vogliamo essere visti, e accettati, condividendo però solo una parte di quello che siamo. Ricevuta quella conferma, cos'abbiamo ottenuto? Un giudizio positivo su quello che non siamo. A quel punto il pozzo diventa solo più profondo.

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  2. La questione è proprio lì, nella (falsa) confluenza tra essere e dichiararsi. Nutrirsi del gioco di specchi che proietta chi vorrei essere e chi gli altri pensano che io sia non è soddisfacente: il pozzo, come dici tu, diventa solo più profondo e la fame maggiore.
    Io credo che la risposta debba essere diversa: Pontiggia, tra le altre cose, dice una grande verità: la scrittura (ma anche la lettura, aggiungo io) è una vocazione. E la vocazione, si sa, contiene in sé una componente di fatica e lavoro su di sé e di dono del risultato verso gli altri. Quindi non mostro (e sto al tuo gioco di parole) per apparire, ma procedo su di un cammino che traccio per me stesso.
    Siamo lettori, scrittori, ma anche figli, padri, sorelle, contabili, amici, terzini, ballerine? Non importa, siamo noi. E gli altri sono compagni di viaggio, se vorranno condividere con noi i silenzi che il viaggio comporta. Perché valgono più di mille parole.

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  3. Hai ragione nel sottolineare che la spettacolarizzazione (nel senso etimologico del 'rendere visibile') della lettura rischia di farci dimenticare l'importanta dell'isolamento in questa attività, ma credo che, se coltivata con moderazione, come tutte le cose, anche quest'abitudine possa riservare delle sorprese. Personalmente, da quando ho iniziato a scrivere delle mie letture non più solo per me stessa ma per condividere con gli altri una passione e dei pensieri, ho anche imparato ad apprezzare di più il raccoglimento fra le pagine e a pormi domande più profonde. Immagino sia tutta questione di equilibrio...

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  4. La moderazione è una bussola importante, il problema è che i confini non sono così definiti. Quando è poco, abbastanza, quando diventa troppo? E poi c'è la vocazione, come diceva Michele, e su quella non si può barare per sempre. Ecco, forse sarà una questione che può risolversi sulla lunga distanza.

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  5. Bello quello che dici che è secondo me un po' il sacro patto tra scrittore e lettore e/o viceversa, perché come diceva Borges: "se nelle pagine che seguono c'è qualche verso ben riuscito, mi perdoni il lettore la sfrontatezza di averlo composto prima di lui. Tutti siamo la stessa persona: le nostre nullità differiscono così poco e così tanto influiscono le circostanze sulle anime che è quasi una casualità che tu sia il leggente e io lo scrivente, il sospettoso e appassionato scrivente dei miei versi". La sospensione dell 'incredulità, quel magico patto del quale aveva parlato per primo Coleridge. Altrettanto tristemente vera e consolidata la vulgata che vuole la solitudine e il silenzio associati alla malinconia. Mi viene in mente a questo proposito "il Colombre" un racconto di Dino Buzzati dove il mostro marino che ha angosciato per tutta la vita il protagonista, nel momento estremo si mostra a lui rivelandosi invece come "la perla del mare", come colui (o colei) che "a chi la possiede da fortuna, potenza, amore e pace dell'animo, ma ormai era troppo tardi". Per tutti leggere dovrebbe dimostrare che non è mai troppo tardi. Complimenti per il tuo articolo.

    Simone.B

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