Su Zero K di Don DeLillo

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Gli scrittori scrivono sempre la stessa storia. Percorrono strade diverse per arrivarci, ma tornano nella stessa stanza. Una stanza che nasconde una domanda o una risposta, comunque un'ossessione. Se questo è vero, se lo scrittore rincorre ciò che più lo tormenta, Don DeLillo scrive soprattutto della morte, del ruolo della morte in quel contesto che diventa la vita.

In Zero K, Don DeLillo riprende un discorso cominciato trent'anni fa con Rumore bianco. Questa volta, però, ipotizza un mondo nel quale l'essere umano non si accontenta di un anestetico, ma cerca una soluzione reale al problema della morte. In una base nel deserto del Kazakistan, un gruppo di scienziati aiuta alcuni uomini, i più ricchi, a «possedere la fine del mondo» sfruttando processi di crioconservazione. Il nome del progetto è Convergence. Convergere, ossia: riunirsi in un unico punto. Un punto di partenza? Un nuovo inizio? L'obiettivo di Convergence è ottenere il controllo sulla morte, conquistare la libertà di decidere, se non quando nascere, almeno quando e come continuare a vivere. Non è soltanto l'idea di aggirare la natura finita dell'uomo a motivare i partecipanti, ma è una vera e propria riconsiderazione del concetto di esistenza, «la trascendenza, la promessa di un'intensità lirica al di fuori dei parametri dell'esperienza normale». È una sorta di fondamento religioso, una fede che confida nel potere supremo della scienza. Al risveglio, i nuovi nati avranno un corpo sano, perfetto. E parleranno una lingua, che ancora non esiste, che sarà unica e universale.

«Tempo, destino, possibilità, immortalità»: questi sono i discorsi che ascolta Jeff quando arriva alla base la prima volta. È lì per assistere al passaggio della sua matrigna Artis, malata di sclerosi multipla. Jeff prova a parlarle – la voce di lei è un sussurro, un pensiero appena espresso – e non riesce a capire fino a che punto Artis sia ancora se stessa, quanto sia ancora coinvolta dal mondo, e quanto di lei resterà dopo, quando nascerà di nuovo. Quando diventerà... cosa diventerà? E cosa sarà, nel frattempo, nella capsula d'ibernazione?
Buttate via la persona. La persona è la maschera, il personaggio inventato in questa miscellanea di rappresentazioni sceniche che costituiscono la vostra esistenza. La maschera cade e la persona diventa quello che siete nel senso più vero. Tutto uno. L'io. Cos'è l'io?
Nella vita moderna la morte esiste in modo più opprimente rispetto al passato, iniziamo a sentire la sua presenza prima ancora di riuscire a vedere la sua ombra. Siamo stati noi a darle questo spazio, lasciando che la tecnologia diventasse così importante. Ci siamo ridotti a uno stato virtuale, svuotandoci da ogni consistenza. «La vita contemporanea è così incorporea che ci si può infilare un dito dentro». La tecnologia è una forza della natura, una contraddizione in termini che però esprime bene il tempo che stiamo vivendo: è inarrestabile, come un uragano, una tempesta. Il progresso tecnologico ci rende più presenti in ogni luogo e più assenti in noi stessi, ecco perché sentiamo sempre la mancanza di qualcosa che non riusciamo a definire. Niente è reale, in senso stretto: cominciamo relazioni con persone che non abbiamo mai visto, ci consoliamo negli abbracci di gente che non abbiamo mai conosciuto. Eppure non possiamo dire che niente esiste; accade qualcosa, in una dimensione che però è a metà tra la nostra realtà e la realtà di un altro.

Zero K è una riflessione al limite, come campo finito di possibilità: i limiti del corpo, i limiti del potere, (economico, ma non solo), i limiti della libertà, della vita e dalla morte, i limiti della tecnologia, dell'uomo rispetto alla tecnologia, i limiti del linguaggio, dell'approssimazione della forma rispetto alla pienezza della sostanza. Se per Carver «le parole sono tutto quello che abbiamo», DeLillo sembra suggerirci che le parole sono tutto quello che siamo. E noi siamo limitati, tanto quanto è limitata la nostra capacità di comunicare. Circoscrivere il significato di un oggetto, di un evento, di una relazione, rinchiuderlo in un spazio finito di parole, è un modo di possederlo, di (avere l'illusione di) controllarlo. È questo che cerca di fare Jeff, che cerchiamo di fare anche noi quando proviamo a definire le nostre emozioni. Rispetto alla morte, per esempio. Cerchiamo di conoscerla il più possibile, ci avviciniamo quel tanto che basta per provare a capirla. Per sentirci un po' più vivi, anche. Ma forse non è la morte, la fine della vita, a spaventarci, forse non vogliamo vivere per sempre. È solo che non sappiamo che cosa ci accadrà, veramente, dopo. E la verità è che non sappiamo neanche se vogliamo saperlo.
È nella natura umana voler sapere di più, sempre di più, sempre di più – ho detto. – Ma è anche vero che quello che non sappiamo ci rende umani. E quello che non sappiamo non ha fine.


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Zero K, Don DeLillo. Einaudi, 2016. Traduzione di Federica Aceto.

Commenti

  1. Non ho mai letto nulla di Don DeLillo ma direi che potrei iniziare da qui. Il tema mi affascina parecchio!
    Oppure, se non proprio con questo, accetto suggerimenti :)

    CervelloBacato

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    1. Secondo me puoi iniziare anche da questo, sai? Io consiglio DeLillo, in generale, più che un libro o l'altro, perché ti permette di confrontarti con riflessioni di un certo tipo. A me è piaciuto molto anche Cosmopolis, più incisivo nella sua brevità. Pensaci un po', e fammi sapere!

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  2. Una recensione che conquista più del libro stesso.
    Sei veramente in gamba.
    Continua così.

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    1. La verità è che a te piace DeLillo, solo che ancora non lo sai (o non sai se lo vuoi sapere) ;)

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