Book haul e shelf tour: il lato fast fashion della cultura


The True Cost è un documentario diretto da Andrew Morgan basato sull'analisi dei meccanismi (e delle conseguenze, soprattutto delle conseguenze) della Fast Fashion. Spiegare il significato di fast fashion è semplice, qualcuno direbbe “non esistono più le mezze stagioni”. E infatti è vero: fast fashion è un termine che serve a identificare quei brand che moltiplicano il numero di collezioni all'interno dello stesso periodo per stare al passo con le tendenze delle passerelle. Se qualche anno fa i punti vendita esponevano due o quattro collezioni all’anno (autunno/inverno – primavera/estate), oggi gli stand si rinnovano ogni due settimane. Per intenderci: fast fashion è la moda che corre dietro a se stessa. Oltre agli effetti devastanti di un ritmo insostenibile che grava sulla natura, sui paesi in via di sviluppo, sulla nostra salute psicofisica, diverse personalità da un capo all’altro della filiera hanno posto l’attenzione su quanto questo incida su altri aspetti della nostra vita che non erano, non sono e non dovrebbero essere legati alla moda.

Come stiamo cambiando? In che cosa ci stiamo trasformando?

Il documentario raccoglie diverse testimonianze: operai sottopagati, costretti a orari e condizioni disumane. Uomini, donne, poco più che adolescenti, che vivono a chilometri di distanza dalle loro famiglie. E poi, dall’altra parte, i video amatoriali di ragazze che condividono in rete i propri acquisti. Una di loro, bionda, americana, mostra una maglietta attraverso la webcam con un’eccitazione che rasenta l’euforia. Dice qualcosa come: «Questo maglione azzurro era davvero carino. Non so neanche se lo indosserò adesso che ce l’ho perché non so se mi piace tanto». Shima è una madre di ventitré anni che lavora in un’industria tessile in Bangladesh e guardando in camera ricorda la tragedia accaduta a Rana Plaza
nel 2013. Dice qualcosa come: «Io non vorrei mai che le persone indossassero un abito macchiato del mio sangue».

Non parlerei di moda se pensassi ai libri come oggetti immuni da ogni tendenza, ma non è così. Anche se non assistiamo alle stesse catastrofi provocate dall’industria dell’abbigliamento, l’impatto della fast culture non è da sottovalutare. Veniamo giudicati ogni giorno in base ai libri che leggiamo e valutiamo gli altri secondo lo stesso criterio. Ma leggere sarebbe già qualcosa; il fenomeno sta imboccando una direzione ancor più pericolosa. Provate a fare una piccola indagine su Youtube: quali sono i contenuti che tirano di più? Bookshelf tour e book haul. Librerie accattivanti come armadi, concepite con lo stile di un arredatore d’avanguardia. Per dimensione, per colore: la disposizione dei libri non è razionale ma estetica. Ammassi compulsivi di cose, oggetti o storie, che deliziano gli occhi e colmano i vuoti. Non si approfondisce più: non c’è tempo, non c’è voglia, non è necessario. Una foto di un libro scattata da un blogger diventa, in automatico, un consiglio di lettura. Che l’abbia letto, quel libro, che differenza fa? 


Earnest Elmo Calkins, il “Dean of Advertising Men”, era uno dei massimi esponenti dell’arte della pubblicità. Calkins scrisse un articolo, lo intitolò Consumismo. Distinse i prodotti in due categorie: quelli che si usano per molto tempo (auto, lavatrici) e quelli che si consumano dopo il primo utilizzo (cibo, sigarette). Calkins spiegò che il consumismo significa far sì che le persone trattino le cose che usano come cose che consumano. Oggi il mercato impone (meglio: suggerisce con l’astuzia di un esperto seduttore) di considerare i beni da utilizzare come beni da consumare. I prodotti che potevamo definire durevoli non lo sono più perché abbiamo la percezione che tutto deperisca in fretta. Non vi è mai capitato di comprare un libro spinti dall'entusiasmo di qualcun altro, portarlo a casa e non essere più tanto sicuri che quello sia il libro giusto per voi? «Non so se lo indosserò adesso che ce l’ho» è come «non so se lo leggerò». Non vi è mai capitato di volerne un altro, il giorno dopo?

Il ciclo di vita di un libro non è breve come quello di un abito ma procede a un ritmo sempre più veloce: al giorno vengono pubblicati circa duecento libri. Duecento libri ogni giorno, la metà dei quali sparisce dagli scaffali nel giro di pochi mesi. Il libro sta diventando un bene deperibile. Quello che mi spaventa però, ed è questo che mi ha spinta a scrivere sull’argomento, è che la letteratura è nata proprio per assecondare una tendenza opposta, ossia per estendere nel tempo il pensiero di un momento, per rendere immortale un sentire mortale.

È questo, no? È ancora così? Per quanto durerà? La storia ci insegna che dobbiamo toccare il fondo per renderci conto di quanto era profondo il pozzo. Di chi è la colpa? Del sistema? Il sistema siamo tutti noi. Nessuno è immune, neanche io, neanche tu. Ma rifletterci, rallentare e prendere consapevolezza, può essere un primo passo. 


Commenti

  1. Considerando che ormai da anni si sente dire che il tasso dei lettori è molto basso, nell'affacciarmi le prime volte sul mondo dei social network sono rimasta molto colpita dal successo dei libri all'interno di quei canali. Poi, in effetti, è emerso che molto spesso il libro è sbandierato proprio come un oggetto modaliolo, da accumulare e sfoggiare senza un interesse reale che vada oltre l'esibizionismo. Penso sia l'effetto di questa smania di apparire, che porta a dichiarare al mondo traguardi di lettura mensili decisamente oltre le possibilità di un essere umano. Forse hai ragione nel dire che la responsabilità è un po'di ciascuno di noi, perché è impossibile pensare di non essere minimamente sfiorati da queste tendenze... io, ad esempio, pur non riconoscendomi fra coloro che si gettano sui libri in maniera cieca e col solo obiettivo di redigere un book haul (espressione di cui scopro ora il significato e che mi fa sentire in colpa per le foto dei miei acquisti qua e là), ho in qualche caso, magari non subito dopo l'acquisto ma notando che un certo libro non scendeva mai dallo scaffale, di essere stata condizionata un po'troppo nella mia scelta in libreria. Almeno la lettura, invece, dovrebbe rimanere un fattore intimo, da sottrarre alla marea delle mode travolgenti e della pubblicità...

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    1. È ovvio che una riflessione (una buona riflessione) parte dall'analisi del proprio atteggiamento. Mostrare i libri acquistati non è sbagliato, è qualcosa che si fa anche tra amici, no? Degenerare non va bene. E poi il rispetto, che non deve mancare mai: per noi stessi, assecondando i nostri ritmi e i nostri gusti, e per gli altri, postando (o consigliando) con criterio. L'onestà e libertà intellettuale, prima di tutto.

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  2. Già mi ero accorta che la letteratura si sta avvicinando molto a quelli che sono i meccanismi della moda e se la colpa è dell'editoria è altrettanto vero che è anche nostra. Non solo la voglia di apparire singolarmente ma di riconoscersi in un determinato gruppo. Quando ero più giovane mi capitava di comprare libri spinta dalla loro grandezza come "Addio alle Armi" o "L'amore ai Tempi del Colera" e lasciarli sugli scaffali anni e anni, poi per qualche motivo inconscio ripresi, letti e amati. Quando questo coincide con un processo interiore va anche bene, conformarsi, ecco, quello no.

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    1. È l'altro lato della condivisione, quello "buono", quello che ti permette di considerare titoli che non avevi degnato della giusta attenzione. Così dovrebbe essere, senza dimenticare, però, quello che ci piace davvero.

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