«Dov’è dunque Dio?»: le risposte degli scrittori, da Wiesel a Dostoevskij

In questi giorni ho preso del tempo. E ho dato del tempo, il tempo a un libro che volevo leggere da qualche anno. È breve, poco più di cento pagine, eppure ho rimandato la lettura molte volte. Me lo sono chiesta, il perché, e la risposta è stata che leggere è portare alla mente un ricordo doloroso, come una macchia antica che non può essere cancellata in alcun modo. Quel che è successo è successo, comunque, e noi dobbiamo tenerlo a memoria. Non per chi non c’è più, che continuerà a non esserci, ma per noi, per ricordarci cosa possiamo diventare. Perché – ed è questo ciò che spaventa di più – tutto nasce da un pensiero, e quel pensiero non è sempre solo malvagio, il che deve far capire che nessuno è immune. E allora leggere, e leggere ancora, per non dimenticare mai.

Ho letto La notte, il racconto autobiografico di Elie Wiesel. Wiesel è uno scrittore statunitense di cultura ebraica. È nato a Sighet, in Transilvania, ed è sopravvissuto all’Olocausto. A pochi mesi dalla fine della guerra, nel 1944, i nazisti invasero l’Ungheria e il quindicenne Elie fu deportato insieme alla sua famiglia nei campi di concentramento, da Auschwitz a Buchenwald. Quello che sembrava impossibile anche solo da immaginare, si materializzò di fronte ai loro occhi: il male assoluto, come una nuvola di fumo nero e denso che dai forni crematori si levava fino al cielo.
Qualcuno si mise a recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per se stessi.– Yitgaddàl veyitkaddàsh shemé rabbà... Che il suo nome sia ingrandito e santificato... – mormorava mio padre. Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo nome? L’Eterno, il Signore dell’universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?
Il termine rivolta non è un concetto astratto, e neanche così immediato. Albert Camus ha dedicato un intero saggio all’argomento, dal titolo L’uomo in rivolta. Le prime parole che leggiamo, nel testo di apertura, sono: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no». Un no, precisa l’autore qualche riga più avanti, che non è necessariamente una rinuncia ma un vero e proprio cambio di posizione. Un voltafaccia che presuppone una frontiera di ammissibilità: «fin qui sì, da adesso no». La situazione attuale supera il mio limite di sopportazione, di conseguenza è inaccettabile. Io dico no, dunque mi rivolto. Ma qual è il motivo della rivolta di Elie? Non è un cambio di stato ma la risposta a un tradimento: di fronte alla sofferenza di un popolo (del Suo popolo), Dio onnipotente non agisce. Dio ha tradito gli ebrei. Dio mi ha tradito. Io mi rivolto contro Dio.
Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono la mia Fede.
I principi della rivolta del piccolo Wiesel sono molto comuni, in letteratura e nella vita, quando la prima non è che una codificazione della seconda. I personaggi che incontriamo sono sempre in guerra con Dio e questo fervore, consapevole o meno, esiste perché esiste anche solo una possibilità di credere. Chi ha una certezza, in un senso o nell’altro, non ha tumulti da gestire. Anche il filosofo Friedrich Nietzsche, che definiva Dio una «risposta grossolana, un’indelicatezza contro noi pensatori» nei fatti non metteva in dubbio l’esistenza di un ordine superiore. In Così parlò Zarathustra, il famoso aforisma «Gott ist tot» (Dio è morto) manifesta, secondo me, proprio una conferma di questa posizione:
«Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?».
Il tono blasfemo delle ultime frasi è una provocazione che spiega il rapporto conflittuale che l’umanità ha instaurato con la figura di Dio nel corso dei secoli. Dal tempo i greci, da quando ogni comportamento era soggetto al timore di “sfidare l’ira degli dei”, gli uomini hanno sempre messo in dubbio la genuinità dell’operato divino, più che la sua esistenza. Il rapporto di subordinazione – e la relativa obbedienza – filiale viene meno nel momento in cui il padre non agisce per il bene del figlio. Allo stesso modo, l’uomo si ribella perché il Padre non utilizza il suo potere per alleviare le sofferenze dell’umanità. E se l’Onnipotente non è in grado di garantire il bene assoluto, allora non merita più rispetto di un uomo. In Cecità, José Saramago mette in atto proprio questo pensiero, esasperandolo nelle ultime pagine del libro, quando quasi tutta la popolazione è resa cieca da un improvviso e inspiegabile male bianco. Una donna, l’unica che riesce a conservare la vista, entra in una chiesa e scopre che qualcuno ha bendato le sculture sacre. Non si sa chi sia stato a compiere quel sacrilegio, ma la scena dà occasione di riflettere sul messaggio alla base dell'atto: Dio è indifferente al dolore dell’uomo, allora «Dio non merita di vedere».

Elie ammette: «Non avevo negato la sua esistenza, ma dubitavo della sua giustizia assoluta». L'ingiustizia è la miccia che accende la rivolta, la molla che fa scattare il meccanismo di autodifesa. Il personaggio che è diretta espressione di questa posizione è Ivan Karamazov, uno dei più emblematici interpreti creati da Fëdor Dostoevskij. Nel libro I fratelli Karamazov, Ivan si esprime più volte sull’argomento, mettendo a confronto le sue tesi con quelle del fratello minore, il religioso Aleksej. I due, che dovrebbero rappresentare i lati opposti di un’ipotetica disputa, non sono poi così lontani. Ivan non dubita dell’esistenza di Dio, ma rifiuta il mondo da Lui creato perché lo ritiene ingiusto. Ammette la sofferenza degli uomini, perché gli uomini hanno peccato («gli era stato dato il paradiso, loro hanno voluto la libertà e han rapito il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà») ma non accetta il dolore dei bambini, la pena di chi, più in generale, non può essere responsabile di alcuna colpa. 
Il prezzo da pagare per la suprema armonia è troppo alto: «non vale, essa, le povere lacrime foss’anche di quel bambino solo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto». Ancora Ivan, ancora Dostoevskij, nel capitolo de Il Grande Inquisitore, definito da Sigmund Freud «uno dei vertici della letteratura universale». Ambientato in Spagna negli anni della Santa Inquisizione, l’episodio è un racconto nel racconto: dopo quindici secoli, Cristo torna sulla terra e gli uomini, al contrario di quanto successe la prima volta, lo riconoscono immediatamente. Ma viene arrestato, per ordine del Grande Inquisitore. Di fronte a colui che si professa figlio di Dio, l’Inquisitore ripercorre la storia del mondo. Ancora una volta un espediente letterario per raccontare l'offesa dell’eterno tradimento. Il Grande inquisitore incolpa Dio di aver affidato all’uomo, un essere limitato, una libertà illimitata: il libero arbitrio.
Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso. Ed ecco che invece di soliti fondamenti capaci di tranquillizzare la coscienza dell’uomo una volta per sempre, Tu hai scelto tutto ciò che v’è di più difforme, di più misterioso e di più indefinito: hai scelto tutto ciò che è superiore alle forze degli uomini: e perciò hai finito per agire come se addirittura tu non li amassi affatto: e questo, chi! Colui ch’è venuto a dare per essi la vita Sua!
«Dov’è la misericordia divina? Dov’è Dio?»: è questo che si chiede Elie quando è costretto a separarsi da sua madre e sua sorella, che continua a chiedersi quando un letto vuoto prende il posto del volto di un amico. Dov’è Dio?, si chiedono tutti, ogni volta che assistono a una nuova esecuzione. Il male alimenta il male, e così anche Elie cambia, a dimostrazione del fatto che la forza che dirige ogni nostro passo è l'istinto di sopravvivenza, e niente è più importante. Quando il padre non riesce più a sopportare la fatica, e cade, in un giorno qualsiasi, di fronte a un sorvegliante qualsiasi, Elie ha un moto di rabbia inaspettato verso suo padre, perché con la sua debolezza ha suscitato le ire dell'ufficiale tedesco. Il figlio non è più figlio perché il padre ha smesso di essere padre.
Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo, al contrario, molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio. I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà.
Un dolore senza giustificazione è letteralmente “troppo da sopportare”, per questo abbiamo bisogno che qualcuno si faccia carico di ogni responsabilità, qualcuno contro cui indirizzare la nostra rabbia. Qualcuno, anche, che sia il capro espiatorio dei nostri errori. Se il Bene ci condanna a vivere «l’inferno dell’anima e della carne», cosa lo distingue dal Male? Un uomo, durante i giorni di prigionia, confessa a Elie di avere più fiducia in Hitler che in Dio. Hitler ha giurato che tutti gli ebrei moriranno, e così sarà, perché il Führer è l’unico che ha mantenuto le sue promesse col popolo ebraico. È paradossale, ma il fallimento di chi aveva il compito di difendere pesa di più dell’intenzione di chi ha attaccato.

Alla domanda provocatoria che dà il titolo a questo articolo, è Wiesel a dare la risposta più chiara, in uno dei passaggi-chiave del suo racconto. Durante un’esecuzione per impiccagione, uno dei condannati, un bambino, non muore subito; per più di mezz’ora resta agonizzante sotto gli occhi dei presenti.
Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca.
Se Dio era appeso a quella forca, siamo stati noi a stringere la corda attorno al suo collo. Se Dio esiste, siamo noi a metterlo in croce. La responsabilità delle scelte che compiamo è nostra, tanto quanto è nostra la libertà di scegliere. Allora anche le parole di Nietzsche assumono, adesso, un accento diverso:
Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!


***
Libri citati
La notte, Elie Wiesel. La Giuntina, 1980. Traduzione di Daniel Vogelmann.
L’uomo in rivolta, Albert Camus. Bompiani,
Così parlò Zarathustra,Friedrich Nietzsche. Adelphi, 1976. Traduzione di Mazzino Montinari.
Cecità, José Saramago. Feltrinelli, 2013. Traduzione di Rita Desti.
I fratelli Karamazov, Fëdor Dostoevskij. Einaudi, 2014. Traduzione di Agostino Villa.

Commenti

  1. Grande riflessione, mi hai fatto molto commuovere perché sono pensieri in cui credo anche io, non oso dire di più.

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  2. Riuscirebbe difficile se non fossi tu a metterlo in evidenza, distinguere tra i brani estrapolati dagli scritti e le tue riflessioni, il tutto si amalgama alla perfezione ottenendo un qualcosa di semplicemente eccezionale.

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  3. Una buona riflessione attorno al giorno della memoria. Questo è un argomento centrale, e purtroppo un po' sottostimato, in questi giorni in cui si parla quasi solo dell'iconografia dell'orrore (dei campi, dei forni crematori, del numero di morti) e si tralascia un po' il vuoto lasciato dalla perdita della fede, o dalla sua profonda messa in discussione, in molti soggetti sopravvissuti all'Olocausto (almeno questa è la mia impressione).

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  4. Un intervento talmente profondo che l'unica risposta può essere un rispettoso silenzio, in cui quell'ultima affermazione rimbomba nella mente con la forza e il peso in essa riversati dalle esperienze di vita e letteratura ricordate.

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  5. Ringrazio tutti voi per i commenti.
    L'orrore c'immobilizza, letteralmente, e non siamo più in grado di vedere altro. Ma in quell'altro c'è tutto: le cause, le conseguenze.

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  6. Dopo un post così, io non posso che tacere. E ringraziare per tutte le citazioni. E continuare a leggere, leggere, leggere e riflettere.

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  7. Bisogna pensare a Dio come la parte migliore di ogni essere umano, quindi qualcosa di interno a noi, non al di fuori.
    Quando la parte peggiore di noi, che siamo male e bene, prende il sopravvento, ecco che nascono espressioni com "Dio è morto, o sta morendo". Etty Hillesum lo spiega molto bene nelle sue riflessioni, quando dice che siamo noi a dover aiutare Dio, non il contrario. Dobbiamo esercitare il bene, ne siamo capaci, molti lo hanno fatto e altri lo faranno, anche in mezzo al caos.
    Se esercitare il bene diventa un bisogno per noi, una passione, il caos intorno non conta.
    Se abbiamo fame, per esempio, mangiamo? Oppure stiamo stiamo a vedere se altri lo fanno? Se scegliere il bene non è un sacrificio ma un bisogno, allora Dio non muore.
    Grazie per il tuo pensiero, spero di aver espresso bene il mio, per poter dire il nostro. Un caro saluto. Giuseppe

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