Raymond Carver e la formula della buona scrittura



Raymond Carver scriveva racconti. Per un bel pezzo della sua vita scrivere fu un’esigenza, un modo per guadagnarsi da vivere. Si sposò a diciannove anni e prima di compierne ventuno era già padre di due figli. Non aveva tanto tempo da perdere. «Presto dentro, presto fuori». La sua scrittura assorbì la sua urgenza, che poi si rivelò una naturale inclinazione, e Carver diventò uno dei maggiori esponenti della letteratura minimalista. Lo dico per darvi un’idea abbastanza precisa del suo stile, ma a Carver, come a tutti gli scrittori, le classificazioni non sono mai piaciute: catalogarsi era come limitare la sua propensione artistica. Scrivere è anche un modo di essere, di concepire le cose, d’immaginare un mondo. «Ogni grande scrittore e anche semplicemente ogni bravo scrittore ricrea il mondo secondo le proprie specificazioni» diceva, e ogni bravo scrittore non vuole altro che questo mondo sia immenso, misterioso e selvaggio. Perché finché ci sarà qualcosa da scoprire, ci sarà ancora parecchio da scrivere.

Il mestiere di scrivere
 è una raccolta di saggi, esercizi e lezioni di scrittura. Da assimilare poco per volta, da consultare a più riprese. Ho tratto dalla sua esperienza quattro principi e li ho pensati un po' come una formula matematica, una serie di operazioni aggregate che diano la misura della buona scrittura.

1. Sottrarre i trucchi
I trucchi non li sopporto. Quando leggo narrativa al primo segnale di trucco o trovata, non importa se da quattro soldi o elaborata, mi viene istintivo cercare riparo. In definitiva i trucchi sono noiosi e io tendo ad annoiarmi facilmente, il che potrebbe avere qualcosa a che fare con il periodo limitato di attenzione di cui sono capace. Ma la scrittura estremamente elaborata o chic o quella chiaramente stupida mi fanno veramente venire sonno. [...] Gli scrittori non hanno bisogno di ricorrere a trucchetti e trovatine né sta scritto che essi debbano sempre essere più in gamba di tutti.
Trick è tradotto come scherzo o astuzia, e come stratagemma o inganno. Ingannevole è lo scrittore che finge di rivolgersi al lettore. È colui che interpreta l’arte della fascinazione, propria della scrittura, come un gioco di potere; corteggia gli altri per conquistare se stesso, dispensando fiori che non emanano alcun profumo. E noi, che raccogliamo quelle rose di cartapesta, ci sentiamo coinvolti in un rapporto senza amore, una relazione a due nella quale c’è spazio soltanto per uno. Se la scrittura è, anche, comunicazione, è da escludere ogni tentativo di manierismo ché riduce il linguaggio a una goffa esibizione «letteraria o pseudopoetica». Ancora, è da evitare un atteggiamento autoreferenziale: uno stile che si bea di se stesso è vuoto, e non interessa a nessuno.

2. Aggiungere l’onestà
Se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scrive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto.
La verità è un concetto che, applicato al mestiere di scrivere, assume una connotazione particolare. La verità narrativa diventa onestà d’intenzione: l’autore non è tenuto a scrivere vero, ma come se fosse vero. La scrittura è efficace se riesce a creare un’illusione; se, mentre leggiamo, pensiamo che quella storia sia vera, nel senso di possibile. «Nessuna delle mie storie è realmente accaduta, ovviamente – non sono uno scrittore autobiografico – ma per la maggior parte serbano una rassomiglianza, peraltro vaga, con certe situazioni e occorrenze della vita». Lo scrittore non compare nelle sue storie, ma è presente in ogni situazione: si riflette negli occhi dei suoi personaggi e nelle idee che gli stessi esprimono.

3. Moltiplicare la precisione
Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi un brivido lungo la schiena del lettore – l’origine del piacere artistico, secondo Nabokov. Questo è il tipo di scrittura che mi interessa di più. Non sopporto cose scritte in maniera sciatta e confusa, sia che si presentino sotto pretese sperimentali sia che si tratti semplicemente di realismo reso in maniera goffa. Il narratore del meraviglioso racconto di Isaac Babel intitolato Guy de Maupassant, parlando della tecnica narrativa, a un certo punto dice: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto».
Nell’autunno del 1958 Carver s’iscrisse a uno dei corsi di scrittura per principianti organizzati dal Chico State College. Il titolare di cattedra era John Gardner. Era la prima occasione, per Ray, di vedere uno scrittore, uno in carne e ossa, e non fu come l’aveva immaginato. 
Gardner indossava abiti convenzionali (completo nero, camicia bianca), acconciava i capelli in modo convenzionale (corti, a spazzola) e andava in giro con una Chevrolet, nera, a quattro porte. Poi però i due si conobbero, e Ray ebbe modo di accorgersi che Gardner era molto di più di quello che lasciava intendere il suo aspetto: era anticonformista, insofferente, meticoloso e appassionato. Se Gardner non appariva come uno scrittore vero, era senz’altro un vero scrittore. 
Uno degli insegnamenti che Carver imparò da Gardner fu la cura della precisione. «Niente di vago o confuso, niente prosa da vetri appannati». Carver ricorda quanto fosse importante, per il maestro, che gli studenti imparassero a dire quel che volevano dire e niente di più, utilizzando le parole giuste nel modo giusto. Non esistono sinonimi perché non esistono due termini che hanno lo stesso significato. «La parola suolo e la parola terra, per esempio». La semantica, quindi, ma anche la sintassi: «Cercò di spiegarmi la differenza che c’è, ad esempio, tra il dire “l’allodola volta sul prato” e “sul prato l’allodola vola”. C’è un suono, e un senso, diverso, no?».

4. Dividere gli influssi dai condizionamenti
Gli influssi sono forze – occasioni, personalità – irresistibili come maree. Non riesco a parlare di libri o scrittori che possano avermi influenzato. Questo tipo di influsso, l’influsso letterario, è per me difficile da individuare con qualche certezza. Per quanto mi riguarda sarebbe ugualmente inesatto dire che sono stato influenzato da tutto ciò che ho letto e che non penso di essere stato influenzato da alcuno scrittore.
Anche a rischio di apparire arrogante, Carver non riusciva concepire il suo stile come il risultato d’influenze definite, o definibili. Ci sono stati autori, colleghi e amici, che sono stati fondamentali per la sua evoluzione, sia artistica che professionale. Gardner stesso, per esempio. Ma «i veri scrittori devono RENDERE TUTTO NUOVO, come consigliava Pound, e in questo processo devono scoprire le cose da soli». Ciò che desta confusione è il significato stesso d’influsso, che richiama alla mente un agente in grado di disciplinare (condizionare e correggere) il corso del fiume. Il punto è l’ispirazione: ogni persona, ogni cosa, ogni strada, ogni sasso di ogni campo costituisce un’unica sorgente nella quale la scrittura è nata, dalla quale la stessa attinge per rinnovarsi.

Se tutto questo fosse davvero parte di un’equazione; se sottraendo, dividendo, aggiungendo e moltiplicando riuscissimo a trovare l’entità della buona scrittura, forse, quel risultato potremmo approssimarlo anche così: «Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste».



***
Il mestiere di scrivere, Raymond Carver. Einaudi, 2008. A cura di William L. Stull e Riccardo Duranti.

Commenti

  1. Come si fa a dire che ha torto? Non si può, tutto qua. Ha ragione, ed è proprio così. Fine della lezione. :)

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    1. Però potresti almeno argomentare, no? Qual è il punto che ti trova più d'accordo?

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    2. È difficile da dire, perché mi sembrano tutti ugualmente importanti. Piuttosto retrocederei l'ultimo punto: dopotutto gli influssi e i condizionamenti dovrebbero interessare solo i critici ed, eventualmente, i posteri. Di certo non lo scrittore, che sbaglierebbe ad adeguarsi ad uno stile qualsiasi che non sia il suo, e neppure il lettore, che rimarrebbe deluso nel cercare uno scrittore in un altro che non sia l'originale.

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    3. Sì, infatti lo pensavo anch'io.

      C'è un altro punto (che per coerenza matematica non ho potuto inserire nell'equazione) che mi interessa moltissimo, magari ci ritornerò più avanti, ed è la differenza tra scrittori di racconti e scrittori di romanzi. Ray dice, più o meno, che lo scrittore/romanziere conduce (o ipoteticamente conduce) una vita abbastanza lineare, che si sviluppa in un mondo che diventa un posto "fisso" e la certezza di quel mondo dà un senso di sicurezza a medio/lungo termine. Quelli dei racconti sono scrittori che non hanno certezze, non hanno appigli, non hanno un mondo abbastanza solido al quale fare riferimento. Potrebbe essere, o almeno è un punto di vista da tenere in considerazione. Però, ed è qui che sorge la mia domanda (che è più un'affermazione): un "bravo" romanziere non può essere efficace, allo stesso modo, nei racconti? Secondo me no.

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  2. Sulla differenza tra scrittori di racconti e scrittori di romanzi troverai delle belle risposte quanto a stile, contenuti e rapporto con il lettore, quando leggerai l'intervento in appendice di Cortazar nel Bestiario.

    Brava, come sempre.

    Paola C. Sabatini

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    1. (Detto tra noi: ho indicato Bestiario tra le opzioni di lettura proprio per quell'intervento a cui ti riferisci. Ne avevo sentito parlare e lo immaginavo pieno di spunti interessanti. Meglio ancora, se approfondisce la questione romanzo/racconto).

      Grazie :)

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  3. Neppure io lo penso. Esattamente come un centometrista non è un maratoneta. È pur sempre corsa, ma la tecnica richiesta è molto diversa: per racconti e romanzi è la stessa cosa, IMHO. Anche se questa cosa del posto fisso e della mancanza di certezze fa un po' "invidia del pene", se mi si passa il termine. :)

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    1. Parallelo interessante, però il suo discorso io l'ho percepito in modo diverso. Ho letto nelle sue parole, magari sbaglio, un'attribuzione indiretta di valore aggiunto: per scrivere racconti ci vuole più tormento. In questo caso, chi invidia chi?

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    2. Sempre lì: siccome faccio racconti allora sono uno scrittore tormentato. Cosa che fa sempre la sua figura. (Cliché? Chi ha detto "cliché"?)

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  4. Risposte
    1. Ci credo! Se abbiamo letto questo libro è soprattutto per merito tuo!

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