Quel qualcosa in più di chi la propria vita sa anche raccontarla



Per introdurre il discorso nel modo giusto, devo fare un paio di premesse. La mia riflessione nasce dall’osservazione di un meccanismo morboso che è sempre esistito ma che negli ultimi tempi è diventato consuetudine: la strumentalizzazione del dolore. L’abitudine di sfruttare il dramma per creare notizia non stupisce più ma è un’operazione così vile che dovrebbe indignarci ogni volta. Peggiore, però, è chi diventa strumento consapevole di se stesso.

Ho sempre creduto che un sentimento è tanto più profondo quando non emerge; quando si diffonde, come un virus, in ogni parte del corpo, quando anche respirare diventa faticoso. Come sì può utilizzare questo come merce di scambio? Sono i motivi che mi allontanano dagli scrittori che utilizzano i propri drammi per creare un libro ad hoc e trasformarlo in un prodotto ad alto livello emozionale. Non bisogna guardare troppo in là per trovare degli esempi: se avete buttato un occhio ai romanzi presentati dai protagonisti del reality Masterpiece, vi sarete resi conto che quasi tutti i brani erano basati su tragedie personali. La giustificazione è che la scrittura è una cura, una valvola di sfogo che permette di appesantire la carta e alleggerire in cuore. Bene. Ma scrivere è sfogarsi? Solo questo? Ci sono tanti, troppi, elementi che fanno una storia.

Però.

Ho terminato pochi giorni fa la lettura di Voci dalla luna (1984) di Andre Dubus. Per chi non lo conoscesse, Dubus è stato uno scrittore che ha sofferto molto nella sua vita e uno degli eventi che lo condizionò maggiormente fu un incidente stradale, avvenuto nel 1986, che lo costrinse sulla sedia a rotelle. Il primo libro che ho letto di Andre Dubus è stato una raccolta di racconti, Ballando a notte fonda (1996), e me ne sono innamorata. Spinta dalla curiosità che mi assale quando alcuni autori riescono a trasportarmi nello stato di grazia del lettore, sono andata a cercare informazioni sulla vita di Dubus e mi sono resa conto che molte storie presenti nel libro contenevano tracce della sua esperienza, neanche tanto camuffata: diversi episodi sono stati raccontati dall’autore nel modo in cui sono effettivamente accaduti.

È difficile leggere Andre Dubus prescindendo dai suoi drammi perché il dolore è il primo elemento che raggiunge il lettore. Quel che stupisce, però, è che i suoi racconti non si concludono con amarezza, ma lasciano sempre intravedere un barlume di speranza che, anche nelle peggiori situazioni, regala un sospiro di sollievo. È una sofferenza che brilla, quella di Dubus, e il contrasto tra dramma e luce sprigiona un’energia incredibile. Ecco perché ho voluto leggere Voci dalla luna, ossia un libro che aveva scritto prima dell’incidente; per cercare di capire se l’evento avesse condizionato lo stile, se in qualche modo l’avesse falsato. Quello che ho riscontrato, se fosse mai possibile un confronto tra due testi così diversi, è che la tragedia ha purificato la scrittura di Dubus da tutte quelle barriere che contraddistinguono anche i rapporti umani: il dolore non è affievolito dalla vergogna, dalle buone maniere e della rigidità dell’apparenza, ma si arricchisce di nuova intensità e giunge chiaro, diretto, libero. Dramma e luce, ma anche umiltà e rispetto. Rispetto di sé. Dignità. La sofferenza, quando è così decorosa, è ancora più coinvolgente.

Dubus è solo un esempio, ma ci sono diversi autori che hanno riversato la propria vita nei libri: mi viene in mente David Foster Wallace che ha scritto a più riprese della Cosa brutta, la depressione che poi l’ha portato al suicidio. Tanti altri, come e più di lui, hanno regalato ai lettori stralci di umanità. E allora sì, forse la vita può anche essere strumento di scrittura, spunto e materia grezza di racconti e storie. Ma c’è anche altro: quel qualcosa in più di chi la propria vita sa anche raccontarla.



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Voci dalla luna, Andre Dubus. Mattioli 1885, 2011. Traduzione di Nicola Manuppelli.

Commenti

  1. Argomento molto interessante, al quale vorrei apporre una piccola suggestione, sperando di non essere troppo fuori tema. Credo che molte persone piangano, si commuovano dinnanzi ad una rappresentazione della vita(tra felicità e dolore) costruita o bene raccontata in libri o tv, ma facciano fatica, se non proprio fuggano quando la vita è reale, quasi ad un passo dalla loro abitazione. Se davanti alla fiction o ad un articolo di giornale che parla di terre lontane ci si commuove, segno che quel sentimento è vivo, funzionante, spesso si ignora chi soffre ed è vicino. Perchè è malato e può contagiarmi, perchè è sfortunato e porta sfortuna parlarci, perchè se lo ascolto sono obbligato ad ascoltarlo sempre anche se non voglio e deprime anche me. La magia del racconto ci rende tutti più sensibili, versiamo calde e sentite lacrime, al massimo sei o sette, il giorno dopo ripartiamo. puro intrattenimento.Il dolore diviene quindi, ai nostri giorni(sempre per come la vedo io), un setimento che vive nel personale, un bacino oscuro da cui attingere nei momenti di malinconia o di eccessiva felicità. Giocoforza gli scrittori ne fanno uso, come i bravi attori che "attingono dal personale"per rendere più vera un'interpretazione. Con questo non voglio dire che giustifico tutta la tv del dolore sviluppata negli anni, ho sempre preferito spettacoli di comici e ballerine a cosiddetti "people show"che fanno passare la domenica indugiando su miserie umane e speculano con cinismo sui sentimenti inquadrando "la piagnona di seconda fila"per dare un surplis drammatico alla narrazione. Certo se ho molto sofferto e nessuno mi ha posto un fazzoletto, e ora che racconto la mia storia(o ne traggo spunto) ci sono un sacco di estranei che mi coprono di soldi per commuoversi senza coinvolgersi, magari faccio bene. Un po'cinico forse, ma anche appagante. Talk0

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    1. Un appagamento che non dura poi molto secondo me, no?
      Dalla TV nascono le peggiori distorsioni che intaccano, poi, ogni settore: sei perfettamente in tema.

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  2. Hera
    Masterpiece credo che funzioni come una sorta di terapia...
    La strumentalizzazione del dolore è un'arma potente in mano a chi produce programmi televisivi e fa pure ascolti, purtroppo.

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  3. Personalmente, sono molto diffidente nei confronti del fiorire dell'autobiografismo, che sembra puramente un modo per avere materia di cui parlare, dato che, a meno di non avere gravi problemi di dissociazione, tutti ci conosciamo e possiamo scavare alla ricerca dei nostri sentimenti ed esternare il nostro vissuto.
    Tuttavia i casi cui hai fatto riferimento, che non conosco così come non ho idea di cosa si scriva a Masterpiece, mi sembrano qualcosa di più: non un parlare del proprio dolore, ma costruire narrazioni in cui un sentimento personale possa emergere senza che, di necessità, si offra al lettore la propria storia: un conto, insomma, è narrare la propria sofferenza come oggetto di un libro, altra cosa è avvalersene come di uno strumento per creare narrazione di storie diverse. Credo che la differenza, come hai detto tu, stia nel modo di raccontare, nel saper trasformare una storia personale da una congerie di notizie buone per il pietismo mediatico ad un veicolo di significati più ampi e universali...

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  4. La volgarità di certe comparsate televisive presso la D'Urso o altri programmi finto-pietisti di quel genere nasce proprio dall'ostentazione del dolore come se fosse un fenomeno mediatico. Poi, per carità, se per qualcuno questo sfogo davanti alle telecamere è terapeutico lo rispetto: ognuno reagisce al dolore a modo suo, c'è chi impazzisce, chi si ritira in campagna e chi si inizia a viaggiare senza meta.
    Fatta questa premessa, credo che lo stesso valga per la scrittura: chi scrive solo per vanità, trasformando inconsciamente una tragedia personale in un metodo per mettersi al centro dell'attenzione, suscita un certo fastidio. Ma chi scrive il proprio dolore fregandosene se sarà un successo oppure, chi lo mette nero su bianco per se stesso, per il proprio equilibrio interiore, e non per avere il famigerato quarto d'ora di celebrità, allora riceve rispetto.
    Come distinguere le due tipologie?... A volte non è così facile.

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  5. È un discorso che si dovrebbe sempre fare però, perché sai cosa? Secondo me, se questo discorso venisse compreso da più persone il fenomeno dell'editoria a pagamento sarebbe tenuto più a bada (a questa conclusione ci sono arrivata per una serie di collegamenti logici che sono sicura non c'è bisogno che ti spieghi).

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  6. È sempre la questione della sottile linea sottile di confine.
    Dobbiamo essere noi, con le nostre letture sbagliate, coi nostri abbagli e le nostre scoperte, a riuscire a distinguere tra "bene" e "male".

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  7. Per quanto riguarda i romanzi ad impronta autobiografica, credo che la differenza di qualità tra un autore e l’altro potrebbe proprio essere data dalla capacità di esprimere le proprie esperienze personali e il corrispondente dolore in modo riflessivo e decoroso (per dare stimoli e spunti utili a chi , leggendo, si ritrova a vivere la stessa situazione), e non in modo lamentoso, plateale o solo per far soldi.

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