La furia dell’America nella pastorale di Philip Roth

Una delle cose che più mi spaventano sono le linee di confine. C'è un divario appena percettibile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e può capitare di fare un passo in più senza rendersene conto, di ritrovarsi pieni d'orgoglio e immolarsi per un'idea, senza accorgersi che, accecati dalla devozione, abbiamo attraversato la soglia di demarcazione. E quanto conta che il punto di partenza fosse un ideale sano e concreto o un seme di pura follia quando quello che resta sono solo cumuli e macerie? Tutto è giustificato dalla causa, così si dice. La violenza giustifica la violenza, la guerra giustifica altra guerra. Tutto è giustificato. Ma quale convinzione, per quanto nobile e decorosa, sarà mai in grado di dare senso alla morte di un innocente? 

In America puoi ottenere tutto, subito, e perderlo altrettanto rapidamente. È così che l'ho sempre pensata, l'America. AMERICA. Rischi di conquistare il mondo e lasciare te stesso, in America. È un sogno, di quelli che iniziano e non sai neanche come ci sei entrato. E ti guardi intorno, e tutto sembra magnifico. Poi i contorni evaporano, i volti sfumano e l'ambientazione cambia. È sempre lo stesso sogno, ma niente è come prima. Seymour Levov, lo Svedese, è la perfezione fatta uomo. Eccelle nello studio, eccelle nello sport. Sposa Miss New Jersey. Prende il posto del padre nella ditta di famiglia. Compra una casa, in pietra, quella che aveva sempre sognato. Il cielo negli occhi, il sole tra i capelli. Una figlia, Merry. Cos'altro poteva donargli, l'America?

L'aveva realizzata davvero, la sua versione del paradiso.

Uno di quelli col cuore a stelle e strisce. Lui non è che la subiva l'America: lui la inspirava profondamente e la lasciava fluire tra polmoni e narici fin quando ne era saturo. Lui la possedeva, l'America. Fino al momento in cui è stata l'America stessa, dall'alto del suo splendore, a rovesciarsi e a mostrargli l'oblio della sua ombra. Quella «peste americana che, infiltrandosi nel castello dello Svedese, aveva contagiato tutti», distrugge ogni cosa. L'America gli scoppia nelle vene.
È Nathan Zuckerman a raccontarci questa storia, quel Nathan che abbiamo già incontrato ne La macchia umana, e che molte altre volte appare nei libri di Philip Roth.

In un'intervista rilasciata qualche mese fa a The Wrap, lo scrittore, confermando ancora una volta il suo addio alla scrittura, ammette che, dopo aver pubblicato il suo ultimo romanzo, Nemesi (2010), si è riletto tutto. Roth afferma che ogni scrittore cambia, da libro a libro: è la stessa voce, ma ogni volta si curva in un'intonazione diversa. Tra i suoi lavori, quelli che preferisce sono Il teatro di Sabbath e Pastorale Americana (Premio Pulitzer per la narrativa, 1998). I protagonisti dei due romanzi sono agli antipodi: il burattinaio Mickey Sabbath dà vita ad un teatrino di perversione e decadimento. È un libro che la maggior parte degli adepti dell'autore fatica ad apprezzare, quasi ad ammettere che esista. Un personaggio gretto e lascivo, sessuale senza essere attraente, privo di tutta quella costruzione in basso rilievo con la quale Roth è solito impressionare i suoi lettori. Ma Sabbath è libero, questo sì, ha tutto il diritto di sbagliare perché da uno come lui nessuno si aspetta nulla. La caduta di Seymour Levov è inarrestabile: la rigidità del suo carattere virtuoso è burro che incrementa la velocità nella discesa e amplifica l'impatto con terreno. Se avesse fatto la cosa sbagliata, per una volta, l'azione giusta per sé, senza pensare al benessere di tutti, forse sarebbe andata diversamente. Se avesse preso posizioni scomode ma decise, se fosse stato meno accomodante e più presente a se stesso. Forse. Perché poi subentra quel senso di giustizia e ingiustizia, di bene e crudeltà, che è personale, che si può provare a spiegare ma non si può insegnare. La linea di confine. Contro questa, nessuno può.
Al circo c'è a volte un artista, reclamizzato come il mangiatore di fuoco, che nel suo numero dà al pubblico l'impressione che le fiamme gli escano da bocca, e là, nella strada di quella città del Vietnam del Sud, questo monaco con la testa rasata dava l'impressione che le fiamme, invece di assalirlo dall'esterno, guizzassero nell'aria dall'interno, non soltanto dalla bocca, ma, in un'istantanea eruzione, dalla testa, dalla faccia, dal petto, dal ventre, dalle gambe e dai piedi. [...] dapprincipio parve proprio un numero da circo, come se ciò che si stava consumando non fosse il monaco ma l'aria, come se il monaco, senza farsi male, avesse incendiato l'aria che lo circondava.


pastorale-americana-philip-roth-einaudiPhilip Roth
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi
2013 pp. 472
ISBN 9788806218034

Commenti

  1. Pastorale americana è il libro che preferisco di Roth, e uno dei più dolorosi. E' una delle tante testimonianze delle quali il caro Philip è sempre tanto prodigo di come la vita riesce, in un modo o nell'altro, a inchiappettarti. Lascio sempre passare un bel po' di tempo, tra un Roth e l'altro, non è mai indolore abbandonarsi alle sue parole.

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    1. È vero, anch'io faccio così. Che piaccia o no è indifferente: leggere Roth non è mai una passeggiata.

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  2. piaciuta questa furia cieca rothiana? Ti sei ripresa dalla botta che dà? ;)

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    1. È un libro obiettivamente bello e mi sono fatta trascinare da questo, dalla densità dell'argomento. Ma se devo dirti che mi ha toccato emotivamente... no, questo no. Credo che la mia "scorza" si stia inspessendo...

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    2. pensavo ti avesse sconvolta! Io, per esempio, l'ho sentito tutto nello stomaco questo libro e lo considero una delle cose più dolorose mai lette.
      La tua scorza da lettrice è diventata inscalfibile! (che brutto termine ahahah)

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  3. Che bello, aspettavo questa recensione.
    In realtà l'avevo già letta velocemente dal cellulare, ma non è la stessa cosa...
    Questo libro attende anche me, ma non è ancora il suo momento.
    La soggettività di giustizia e ingiustizia mi fa un po' paura...

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