La campana di vetro di Sylvia Plath

La campana di vetro di Sylvia Plath

Un incontro. Anzi no, un ricongiungimento. Sylvia Plath l’ho sentita sempre un po’ mia, ancor prima di leggerla. Per questo ho rimandato più volte la lettura del suo unico romanzo, La campana di vetro: per paura di perdermi. Ma un paio di giorni fa, complice un particolare stato d’animo, l’ho preso. Afferrato.

Durante la lettura ho provato sensazioni distinte su diversi livelli. Al primo livello c’è Ester, la protagonista del romanzo: una brillante diciannovenne che scivola in una profonda depressione quando, grazie a una borsa di studio, si trasferisce a New York. La città non è come l’aveva immaginata: le convenzioni sociali sopprimono ogni sorta di slancio emotivo e artistico, ma lei sembra l’unica a rendersene davvero conto. Ester non accetta di conformarsi all’immagine della donna borghese del tempo e, intrappolata in una realtà preconfezionata e soffocante, si spegne. Il male di vivere, quella la cupola d’affanno sotto la quale si sente imprigionata, offusca ogni suo entusiasmo e l’idea del suicidio come unica via d’uscita primeggia sulla maggior parte della storia.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere.
In questo libro ho trovato tutto quello che mi aspettavo, tutto quello che cercavo. Leggere è stato piacevole perché la penna della Plath si muove con ingegno e spirito, talvolta anche con ironia. Nonostante questo, è difficile addentrarsi nelle pieghe del romanzo prescindendo dalla biografia dell’autrice, perciò leggere diventa anche difficile. Ecco perché parlavo di doppia percezione: al secondo livello c’è Sylvia. La personalità è forte, l’intelligenza è vivida, eppure tutte queste qualità vengono offuscate dall’angoscia e dalla rassegnazione. La campana di vetro è la lente distorta con la quale Sylvia, come Ester, percepisce la vita: «Come un bambino nato morto».

Il romanzo acquista, a posteriori, le sembianze di una dichiarazione d’intenti: l’assurda consapevolezza dell’immutabilità della condizione umana e la concezione del suicidio come unica soluzione. Si avverte, a un certo punto, un senso di ribellione alla stessa trama; è impossibile accettare la passività con la quale le due protagoniste si arrendono. A tutto questo c’è da aggiungere un aggravante: è penoso assistere alla regressione lenta ed inesorabile di Ester ma, nel libro, c’è anche speranza e luce, rinascita. È quasi un dolore avere la consapevolezza che Sylvia non si sia concessa la stessa opportunità.


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La campana di vetro, Sylvia Plath. Traduzione di Adriana Bottini e Anna Ravano. Mondadori, 2005.

Commenti

  1. belle parole le tue, mi hai messo una grande voglia di leggerlo, di nuovo!
    Tempo fa, subito dopo aver letto i suoi Diari, volevo prenderlo, ma ero già un po' sottotono di mio e Sylvia non ti tira certo su il morale...
    Però sento il bisogno d leggerlo, perché come te anch'io Sylvia la sento mia!
    Devo procurarmelo il prima possibile :)

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    Risposte
    1. Grazie! :)
      Ho letto la tua recensione di Diari e ho lo stesso tentennamento. Leggere è difficile, quasi vorresti averla di fianco e scuoterla per dirle: Cazzo, sei una donna fantastica, perché ti lasci andare così?

      Ci vuole tempo, mi serve una pausa.

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